IL DOCUMENTARIO ABITA ANCORA QUI
Dal documentario Creative Despite War del cileno Rui Díaz. |
“Solo durante il servizio militare ho avuto la possibilità di conoscere il mio Paese, di entrare nei Territori Palestinesi, di rendermi conto di ciò che accade attorno a me, a noi, ogni giorno. A scuola non mi avevano insegnato nulla, sul conflitto israelo-palestinese. Come se non esistesse. Così ho deciso di indagare alla radice, intervistando gli insegnanti israeliani e quelli palestinesi. Nelle colonie, nei campi profughi, nelle scuole miste. Per capire quale verità sulla nostra società e la nostra storia stiamo trasmettendo ai nostri figli”.
Così Tamara Erde ha presentato il suo progetto di documentario Teaching Ignorance ai partecipanti al workshop Lisbon Docs, dal 15 al 20 ottobre a Lisbona, fra i quali c’ero anch’io perché il lavoro sulle donne saharawi Just To Let You Know That I’m Alive era tra i 18 selezionati da tutta Europa.
Dal documentario di Tamara Erde Crazy People Here |
Tamara ha trent’anni (ma ne dimostra molti meno), è una regista israeliana che ora vive a Parigi e coltiva con precisione una passione che è anche la mia: la conoscenza, la guerra agli stereotipi, l’impegno a indossare sguardi nuovi sulle storie nuove e anche vecchie.
Nel suo Teaching Ignorance vediamo un insegnante di una colonia ebraica che dichiara candidamente: “Certo che ai nostri ragazzi gli arabi non piacciono. L’unico dubbio è se debbano ucciderli oppure no”. Ma anche le testimonianze di parte palestinese sono altrettanto scioccanti, in un equilibrio perfetto e inquietante di mistificazione della storia.
A Lisbona, oltre a imparare moltissimo su come costruire un documentario, ho realizzato che sono in tanti, ancora, in tutto il mondo e soprattutto giovani, a credere nei progetti culturali che parlino di temi sociali, delle sofferenze nascoste nelle pieghe della cronaca, di personaggi ignoti ai più che pure stanno costruendo grandi cose in difficili contesti. Ed è confortante, quasi eccitante, sapere che esiste ancora un’informazione sposata all’arte capace di interessarsi a cose che l’informazione tradizionale trascura, in una forma come quella del documentario che è pressoché inesistente nei nostri cinema e nei palinsesti delle televisioni italiane.
La polacca Alina Skrzeszewska, per esempio, ormai stanziale negli States, per girare il suo Game Girls ha vissuto un anno nelle case delle spacciatrici di crack di Skid Row, famigerato sobborgo di Los Angeles. E racconta queste donne che tentano di rialzarsi con la crudezza di immagini in bianco e nero e la delicatezza del dialogo intimo, da donna a donna.
Bellissimo anche Creative Despite War del cileno Rui Díaz, per il quale a Lisbona è intervenuto il producer Juan Camilo Cruz: un ritratto generazionale dei giovani afgani che tentano di rivivere attraverso l’arte. Come la pittrice Rada Akbar, i musicisti della band District Unknown (la prima a fare heavy metal in Afghanistan), Shamsia che colora di graffiti le periferie di Kabul. Il trailer mi ha ricordato le atmosfere del film I gatti persiani, che si svolge in Iran ma rimanda lo stesso desiderio dei giovani di esprimersi in un linguaggio universale che travalichi ogni confine imposto con la violenza.
E poi The Silk Railroad dell’americano Martin DiCicco, che indaga su come la ferrovia che attraverserà Turchia, Azerbaijan e Georgia, tagliando completamente fuori l’Armenia, creerà nuovi equilibri sociali ed economici nella regione e diversi orizzonti mentali per le persone che abitano quei luoghi. E Dreamocracy, di produzione portoghese ma diretto dalle francesi Raquel Freire e Valérie Mitteaux: un viaggio politicamente impegnato ma anche divertente insieme a Pedro Santos e João Labrincha, i due attivisti portoghesi che, prima ancora degli indignados spagnoli, hanno affollato le piazze del loro Paese per protestare contro l’austerity imposta dall’Europa. E ora stanno fondando una scuola di attivismo politico per rendere i giovani protagonisti del cambiamento. E Palikot People del polacco Konrad Szolajski sul politico più trasgressivo che la Polonia abbia mai avuto: Janusz Palikot, il primo a condannare pubblicamente la corruzione della Chiesa cattolica locale, a teorizzare la legalizzazione delle droghe leggere, a chiamare nel suo movimento un transessuale, una leader femminista e un attivista per i diritti degli omossessuali. In una Polonia dove è ancora vietato abortire e la terapia per le malattie mentali resta l’esorcismo.
Grottesco e originalissimo Sheitel! dell'ebrea inglese Natasha Serlin: uno sguardo ironico sullo sheitel, appunto, la parrucca che le ebree ortodosse indossano al posto del velo imposto dalla loro religione. I capelli veri restano invisibili, ma loro si sono astutamente inventate un modo di essere belle comunque. Anzi, come dichiara preoccupato un rabbino intervistato da Natasha: "Con quelle parrucche risultano ancora più attraenti che se avessero il capo scoperto. E' un guaio".
Da Just To Let You Know That I'm Alive |
Dall’Italia c’eravamo noi (io e la producer di Just To Let You Know That I’m Alive, l’amica Raffaella Milazzo) e il regista Vincenzo De Cecco, che sta lavorando a una riflessione per immagini su come i concetti di ricchezza e povertà siano stati sovvertiti dalla crisi economica, e sulle strade che possano dischiudere nuovi sogni di equità globale.
Insomma, un inatteso e intenso bagno di cultura, di idee, di entusiasmo e di opportunità per il futuro, questo incontro con tanti registi emergenti. E alla fine, anche di contatti utilissimi per quando Just To Let You Know That I’m Alive sarà completato: si sono infatti interessate alle nostre donne saharawi la tv spagnola Chello Multicanal, la tedesca RBB, l’olandese IKON e anche il Tribeca Film Istitute.
Ora, non ci resta che montarlo e produrlo. Vi ricordo che, per riuscirci, abbiamo attivato una raccolta fondi online a questo sito: http://www.emphas.is/web/guest/discoverprojects?projectID=761
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