L'ULTIMO SMS DI LEA GAROFALO
“Volevo impedirle di andare a Milano, avevo persino tentato di trattenerla fisicamente. Lei mi rassicurava: ‘Avvocato, non si preoccupi: finché con me ci sarà Denise, non mi accadrà nulla’. Così quel giorno a Firenze prendemmo due treni per direzioni diverse, e durante il viaggio continuavamo a mandarci sms. ‘Tornate indietro’, le scrivevo, ‘scendete a Piacenza, abbiamo già un posto dove sarete al sicuro’. Lei a un certo punto mi rispose: ‘Grazie avvocato, che Dio la benedica, Denise e io accettiamo la sua proposta di rifarci una vita’. Ma a Piacenza non è scesa. Quattro giorni dopo mi hanno chiamata i carabinieri di Milano”.
E l’avvocato Enza Rando ha dovuto spiegare loro che quella donna sparita di sera all’Arco della Pace era una testimone di giustizia, una che aveva fatto nomi e cognomi sulla faida di ‘ndrangheta che dal suo paese natale, Petilia Policastro in provincia di Crotone, si era dislocata a Milano. Una donna che a 35 anni aveva già attraversato troppe vite e le restava soltanto Denise. Sua figlia, il suo futuro.
Lea Garofalo è scomparsa a Milano la sera del 24 novembre di tre anni fa. Lo scorso marzo, il suo ex compagno Carlo Cosco e altri sei uomini sono stati condannati all’ergastolo per il suo omicidio e l’occultamento del cadavere.
Le hanno sparato, e sciolto il suo corpo in 50 litri di acido. Il 20 novembre 2009, quando a Firenze si congedava dall’avvocato Enza Rando per andare a Milano a incontrare Cosco, Lea era certa di una cosa: “Mi fermo solo per recuperare una somma di denaro che quell’uomo mi deve. In così poco tempo non riuscirà a organizzare il mio omicidio”.
Si sbagliava. Le indagini non sono riuscite ad accertare con esatezza né il momento né il luogo in cui è stata uccisa, ma di certo in un terreno nella frazione di San Fruttuoso a Monza.
Si sbagliava, sebbene la ‘ndrangheta Lea la conoscesse bene. Suo padre era stato ammazzato quando lei aveva nove mesi. Suo fratello Floriano Garofalo, prima di essere anche lui assassinato nel 2005, da Petilia Policastro muoveva i fili dello spaccio a Milano in zona Baiamonti-Montello, insieme alla cosca di Coco Trovato. Gli uomini e le donne della famiglia Cosco sbrigavano il lavoro sporco, tagliavano la droga sotto gli occhi di Lea.Che aveva fatto la “fuitina” a 13 anni con il ragazzo di cui s’era innamorata proprio per dimenticare la Calabria e abbracciare un mondo nuovo a Milano, fatto di regole diverse e senza strade imbrattate di sangue. Invece qui si era ritrovata in un ambiente identico, con i picciotti della ‘ndrangheta che si ammazzavano tra loro, nello stabile di via Montello 6 di proprietà della Fondazione Policlinico occupato abusivamente da famiglie calabresi che campavano con la droga.
Aveva partorito la sua bimba a 17 anni e mezzo, Lea. E anche per lei, come per altre donne nate e cresciute nel ventre delle mafie, la maternità ha innescato un corto circuito. La sociologa Renate Siebert nel suo Mafia e quotidianità scrive che il mafioso non si fida delle donne perché in ogni donna c’è una madre. E la madre Lea Garofalo desidera per la sua Denise un avvenire fatto di scelte libere e non di ineluttabili destini graffiati dall’obbedienza e dalla morte intorno. Così, quando Carlo Cosco viene arrestato nel 1996 per traffico di droga, lei lo lascia. Parte con la figlia, alla quale sempre risparmierà i colloqui in carcere con il padre.
Nel 2002 Lea Garofalo denuncia i loschi affari del suo uomo e diventa testimone di giustizia. Non collaboratrice, come erroneamente è stata indicata: l’unico reato che ha commesso è stato dare uno schiaffo a una ragazza che aveva offeso la sua Denise, e che l’ha poi denunciata per lesioni. La prima udienza si teneva a Firenze il 20 novembre del 2009: è stato quel giorno che il suo avvocato Enza Rando ha tentato di trattenerla dall’andare a Milano. Ma Lea era povera, sofferente, disorientata. Carlo Cosco le doveva dei soldi. Li avrebbe presi e, con Denise, si sarebbe messa nelle mani dell’associazione Libera per ricominciare altrove. Le telecamere di corso Sempione a Milano la filmano la sera del 24 novembre 2009.
Denise sale in auto con il padre, che vuole portarla a trovare gli zii. Madre e figlia devono ricongiungersi più tardi per prendere un treno, ma quando Denise torna in corso Sempione, di fronte al bar Marilù, Lea non c’è. E mai arriverà.
Lea Garofalo avrebbe voluto studiare e diventare avvocato, ma i condizionamenti della sub-cultura in cui era cresciuta glielo avevano impedito. Eppure parlava bene e scriveva bene, nutriva passione per la correttezza del linguaggio perché le parole contano, diceva al suo avvocato. E anche per questo non tollerava di essere definita una pentita, perché lei della ‘ndrangheta non aveva mai fatto parte. E non tollerava di essere stata estromessa, a un certo punto, dal programma di protezione. In un verbale del 2005 diceva:
“Non si vive, si sopravvive in qualche maniera. Si sogna chissà cosa fuori, che sia sicuramente meglio, perché niente sarà peggio di quello”.
Oggi c’è Denise, che ha 21 anni, studia, vive in una località segreta sotto protezione. Al processo del padre e degli altri cinque uomini che le hanno strappato la madre, si è costituita parte civile con un coraggio fuori dal comune.
Quando ha visto il film su Rita Atria, la giovanissima testimone di giustizia siciliana che si tolse la vita dopo l’assassinio del giudice Paolo Borsellino, Denise si è identificata nella piccola eroina tragica di Partanna. Solo che lei ha ancora una gran voglia di vivere. “E’ come un bimbo che impara a poco a poco a camminare sulle sue gambe” dice Enza Rando, che in questi giorni ha avuto il doloroso compito di comunicare a Denise l’ennesimo lutto: la morte della nonna Santina. La donna in nero, immagine immobile della Calabria profonda, che non ha mai compreso fino in fondo la scelta della figlia Lea di voltare le spalle alle leggi della ‘ndrangheta che paiono scolpite nella pietra.
Il 24 novembre alle 14.30, il Presidio Giovani dell’associazione Libera ricorderà la ribellione amara di Lea Garofalo piantando un albero in sua memoria all’Arco della Pace.
Mentre mercoledì 21, alla Biblioteca di piazzale Accursio a Milano,l’associazione Saveria Antiochia Omicron ospiterà Giovanni Impastato, sua moglie Felicetta e la responsabile di Libera Milano Ilaria Ramoni nella conferenza “Donne contro la mafia” in cui, partendo dalla vicenda di Lea, si rifletterà su come le donne possiedano una chiave per scardinare i sistemi mafiosi che fino a ieri le relegavano a un silenzioso pianto sui loro morti.
“Solo attraverso le donne si può cambiare l’educazione dei figli” fa notare Jole Garuti, direttrice di Saveria Antiochia Omicron. “Finché avremo donne convinte che il figlio maschio dev’essere educato alla vendetta e la femmina al silenzio, non faremo passi avanti nella lotta contro le mafie. Invece ci sono tante donne che hanno avuto il coraggio di dire no, quasi tutte per motivi personali: l’amore per i figli, il desiderio di un futuro diverso. Dobbiamo riuscire a riunirle in un movimento, a far sentire loro la solidarietà della società intera, per condurle fuori dalla loro sofferente solitudine”.
La solitudine di Lea Garofalo in fondo è la stessa di Maria Concetta Cacciola, testimone di giustizia contro la ‘ndrangheta di Rosarno, che non ha retto alle pressioni della famiglia e s’è suicidata nell’agosto del 2011. E la solitudine della pentita Giuseppina Pesce, anche lei di Rosarno, che ha portato alla sbarra un pezzo della sua famiglia, tra le più efferate cosche di Calabria, e in tribunale continua a sentirsi dare della squilibrata dai parenti. E poi ci sono le sindache calabresi minacciate come Carolina Girasole a Isola Capo Rizzuto, Elisabetta Tripodi a Rosarno, Maria Carmela Lanzetta a Monasterace. Il diagramma femminile di un Sud teso e complesso, dove spesso il sentimento prevale sulla ragione ed è un bene.
Perché la madre che vive dentro ogni donna comincia davvero a preoccupare le cosche.
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