PER LA COLPA DI ESSERE NATA
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Aveva otto anni quando è stata espulsa dalla scuola elementare. Era una brava scolara, ma aveva la colpa di appartenere a una famiglia ebraica. Ed era l’autunno del 1938, quando lo Stato italiano cominciava a emanare il lungo corpus delle leggi razziali che escludevano gli ebrei dalla vita sociale del Paese e preludevano alle deportazioni nei campi di sterminio nazisti: oltre settemila ebrei italiani che, dall’ottobre del 1943 al febbraio del 1945, furono stipati dentro i convogli diretti in gran parte ad Auschwitz. Sono tornati in 837. Liliana Segre era fra loro.
Oggi che ha ottantadue anni e la forza di sempre, Liliana si prepara a ricevere il diploma di scuola elementare (simbolico, dato che dopo la guerra ha proseguito gli studi) proprio nell’istituto dal quale era stata espulsa nel 1938: la scuola Ruffini di Milano, in via Ruffini, zona corso Magenta.
Accadrà lunedì 21 gennaio alle 19.30, e poi Liliana racconterà ancora di sé bambina ad Auschwitz, come lo ha raccontato a me qualche anno fa. Ci sarò anch'io alla scuola Ruffini perché è tanto che non la ascolto, e ascoltarla mi fa sempre bene. Per la forza che comunica, per la sua libertà interiore. Per il suo equilibrio conquistato e mantenuto, il suo eloquio misurato, senza sbavature e mai la tentazione di auto-commiserarsi.
Riporto un brano del mio libro Sopravvissuta ad Auschwitz (edizioni Paoline, appena uscito in una nuova edizione e in questi giorni in edicola allegato a Famiglia Cristiana), dove Liliana rivive la prima volta che si è sentita una diversa.
“Ero una bambina milanese come tante altre, di famiglia ebraica laica e agnostica: non avevo ricevuto alcun insegnamento religioso in casa. Nel settembre del 1938 avevo terminato la seconda elementare e conducevo una vita tranquilla e felice nel mio microcosmo familiare.
Abitavo a Milano, al numero 55 di corso Magenta, con mio papà e i nonni Olga e Pippo: dolcissimi, molto amati. Mia mamma era morta quando io non avevo ancora compiuto un anno, e mio papà – che nel 1938 aveva trentanove anni – era tornato a vivere nella casa dei genitori.
Non avevo mai sentito parlare di ebraismo quando, una sera di fine estate, mi sentii dire dai miei familiari che non avrei più potuto andare a scuola. Ricordo che eravamo a tavola. Ricordo i loro visi ansiosi e affettuosi insieme: mi fissavano negli occhi mentre mi comunicavano questa notizia che a me suonava incredibile. Io frequentavo una scuola pubblica, ero una discreta scolara, non vedevo motivi per essere espulsa. “Perché? Cos’ho fatto di male?” chiesi, e intanto mi sentivo colpevole, colpevole di una colpa che mi era sconosciuta.
Solo negli anni capii che era la colpa di essere nata ebrea: colpa inesistente, paradosso artificiale ma allora spaventosamente reale.
Mio papà cercò di spiegarmi che le nuove leggi razziali avevano espulso tutti gli studenti ebrei dalla scuola elementare fino all’università, e così pure i maestri, i professori, gli impiegati degli enti pubblici, i magistrati, gli ufficiali. Persino i professionisti, avvocati e medici, potevano esercitare esclusivamente con clienti ebrei.
Non avevo mai sentito parlare di ebraismo quando, una sera di fine estate, mi sentii dire dai miei familiari che non avrei più potuto andare a scuola. Ricordo che eravamo a tavola. Ricordo i loro visi ansiosi e affettuosi insieme: mi fissavano negli occhi mentre mi comunicavano questa notizia che a me suonava incredibile. Io frequentavo una scuola pubblica, ero una discreta scolara, non vedevo motivi per essere espulsa. “Perché? Cos’ho fatto di male?” chiesi, e intanto mi sentivo colpevole, colpevole di una colpa che mi era sconosciuta.
Solo negli anni capii che era la colpa di essere nata ebrea: colpa inesistente, paradosso artificiale ma allora spaventosamente reale.
Mio papà cercò di spiegarmi che le nuove leggi razziali avevano espulso tutti gli studenti ebrei dalla scuola elementare fino all’università, e così pure i maestri, i professori, gli impiegati degli enti pubblici, i magistrati, gli ufficiali. Persino i professionisti, avvocati e medici, potevano esercitare esclusivamente con clienti ebrei.
Era troppo difficile per me comprendere un evento simile. “Ma perché?” riuscivo solo a dire.
E intanto ero diventata una diversa, insieme a quella minoranza di italiani di religione ebraica trasformati all’improvviso in cittadini di serie B, separati dalla società civile ed esclusi dalla realtà di ogni giorno. Era come se davanti ai miei piedi si spalancasse un burrone, che negli anni successivi si sarebbe dilatato in un baratro profondissimo e pericoloso, fino a nascondermi definitivamente ogni bagliore di luce.
Di colpo non ero più quella di prima. Una delle umiliazioni più avvilenti era per me ascoltare i discorsi dei miei, quelle poche parole che allora si facevano sentire ai bambini: elencavano gli amici che ancora li salutavano per strada, contavano le rare manifestazioni di solidarietà ricevute. All’improvviso eravamo stati gettati nella zona grigia dell’indifferenza: una nebbia, un’ovatta che ti avvolge dapprima morbidamente per poi paralizzarti nella sua invincibile tenaglia. Un’indifferenza che è più violenta di ogni violenza, perché misteriosa, ambigua, mai dichiarata: un nemico che ti colpisce senza che tu riesca mai a scorgerlo distintamente.
I ragazzi che incontro nelle scuola a volte mi chiedono quanti fossero gli ebrei in Italia a quell’epoca, e spesso io rilancio la domanda: “Voi quanti credete che fossero?”.
Nessuno ne ha un’idea.
Eravamo una minoranza assoluta: circa quarantamila persone allora, pressappoco altrettante oggi. Iniziava una persecuzione contro una sparuta fetta di popolazione che da secoli era inserita nel contesto italiano. C’erano persino degli ebrei fascisti, e la comunità di Roma viveva lì ancora prima di Cristo. Era una violazione profonda contro dei cittadini italiani che avevano combattuto per il Paese nella prima guerra mondiale, come mio padre e mio zio, e che senza una ragione venivano messi da parte e segnati a dito.
Uno dei miei ricordi più nitidi è proprio quello di essere segnata a dito. Per andare nella mia nuova scuola privata, l’unica che mi fosse concesso frequentare, attraversavo la via della vecchia scuola pubblica. E vedevo le ex compagne di prima e di seconda elementare, bambine con le quali avevo giocato, riso e scherzato, che dall’altra parte della strada mi indicavano alle altre: “Quella lì è la Segre. Non può più venire a scuola con noi perché è ebrea”. Risatine maliziose, frasi delle bimbe di quell’età, che in realtà non conoscevano il significato di quello che dicevano, così come lo ignoravo io.
Giorno dopo giorno cominciai a capirlo, e il mio tormento quotidiano diventò tentare di mimetizzarmi nella mia nuova scuola, non parlare, io che ero sempre stata così aperta, così cordiale, così vivace. Zitta, stavo zitta per non farmi sfuggire dalla bocca, per non raccontare quello che succedeva nella mia casa piccolo borghese, una casa tranquilla, una casa come tutte le altre.
Era una sensazione che non avevo mai provato. Ed era una realtà che dovevo accettare: non potevo più andare a scuola in via Ruffini perché ero ebrea, io che in casa non avevo mai sentito parlare di ebraismo. Questa mancanza di identità che i miei mi avevano trasmesso si è rivelata come una grave assenza: se avessi avuto una consapevolezza della mia appartenenza ebraica, forse avrei sopportato certi eventi, allora e in seguito, con uno spirito diverso, con più coscienza. Invece avvertivo solo la crudezza e la tristezza di parole che a otto anni non si conoscono: “Diversa, quella lì è ebrea”.
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