LA SIGNORA DEL NON PROFIT
Claudia Fiaschi (foto Vita) |
E' stata una pioniera della cooperazione sociale in Italia. Ora guida la maggiore impresa non profit sul territorio nazionale. Conversazione con Claudia Fiaschi sull'economia senza scopo di lucro. Che, soprattutto in questi tempi di crisi nerissima, ha tante cose da dire all'economia tradizionale in picchiata.
E’ una manager dal lessico inconsueto, Claudia Fiaschi. Invece che di concorrenza e competitività, lei parla di economia che prospera grazie alla solidarietà tra imprese. E poi racconta dell’impresa che lei presiede, accennando dati sorprendenti nell’attuale stagnazione generale: la produzione aumentata del 13 per cento in tre anni, l’occupazione cresciuta del 5 per cento nel 2011, la forza lavoro femminile al 68 per cento, l’assunzione di tanti ultracinquantenni rimasti disoccupati in altri settori. E le quote rosa che qui sono una realtà da quasi vent’anni.
Ci spieghi la vostra ricetta per reggere così bene alla crisi.
Le ricerche dicono che in Italia crescono di più le piccole e medie imprese che attuano strategie di rete, con un approccio diverso da quello competitivo delle grandi aziende. E il dna delle cooperative è proprio basato sulla collaborazione: si cresce se cresce anche il tuo vicino, se si armonizzano tutte le risorse di un territorio, se si mettono in circolo solidarietà e fiducia. Penso sia un’alternativa interessante al modello di sviluppo cui siamo invece abituati. In una cooperativa la proprietà è diffusa, non c’è un azionista cui rispondere, il capitale non viene remunerato. A nessuno importa avere una rendita di un euro in più l’ora: ciò che muove le persone in un’impresa sociale è la passione per il proprio lavoro e la capacità di prevedere i nuovi bisogni. E così Milano, oggi, è pilota per i progetti di housing sociale, il Piemonte per l’occupazione degli immigrati.
Quali sono gli esempi italiani meglio riusciti, che potrebbero dare spunti anche all’economia profit?
Quelli che definiamo “ibridi”: strani ufo creati nei nostri consorzi per rispondere alle nuove esigenze delle comunità. Si producono cioè beni comuni, quelli che prima venivano solo dagli enti locali (trasporto pubblico, salute, ambiente), mettendo insieme tanti attori del territorio come sindacati, organizzazioni di volontariato, imprese, banche... Il fine è creare consenso attorno a un progetto prioritario per quella comunità. Il poliambulatorio WIS a Milano, per esempio, offre servizi sanitari di qualità a costi sostenibili: sei cooperative hanno messo un milione di euro e alcune banche hanno aggiunto il resto. A Forlì, per un progetto simile, sono stati coinvolti anche i mormoni e la Cisl. A Messina, si sono aggregati 60 soggetti per mettere il capitale, poi raddoppiato da una fondazione bancaria: una parte è stata investita in impianti fotovoltaici, per finanziare con il ricavato un altro centro sanitario. Sono esperimenti, 65 in Italia. Non sappiamo come si evolveranno, ma contengono un’intuizione importante: quella per cui le persone possono fare qualcosa per cambiare le proprie vite e sovvertire le regole del gioco imposte finora dalla società.
Si dice spesso, però, che le leggi italiane non incoraggino lo sviluppo del settore non profit.
Infatti manca una legge sul non profit, nel senso che non abbiamo strumenti per attrarre investitori profit sui nostri progetti, come invece succede negli Stati Uniti e in Gran Bretagna. Da noi non esiste cioè la possibilità, per un’azienda profit, di fare un investimento etico: dare del capitale a un ente non profit accettando una remunerazione minore in un tempo più lungo, per contribuire al benessere del proprio territorio. Le aziende possono solo fare donazioni: ma essere un benefattore è molto diverso dall’essere un investitore.
Perché tanta attenzione alle donne, nel vostro consorzio?
Non solo perché i settori educativi e sanitario coinvolgono fisiologicamente molte donne. La nostra conduzione d’impresa in gruppo rende le cooperative luoghi di conciliazione naturale: mettere in cantiere un figlio, in CGM, non è mai stato un dramma, anzi. C’è l’abitudine a collaborare, a sostituirsi a vicenda perché tutti possano dedicarsi anche alla famiglia, e infatti abbiamo un altissimo tasso di maternità. Da noi, ciò che succede nella vita non può mai essere avulso dal lavoro.
da Io donna, 16 febbraio 2013
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