LE RIBELLI DI CALABRIA


Sindache coraggiose e figlie di clan di 'ndrangheta che denunciano i loro uomini. Anche Goffredo Buccini, inviato del Corriere della Sera, ha indagato il mondo (nuovo) di queste protagoniste della riscossa calabrese. In un libro che a qualcuno ha dato fastidio.

Da una parte, le donne sindaco minacciate dalla ’ndrangheta perché, in un «clima di politica ridotta a poltiglia», tentano di ristabilire la legalità: Maria Carmela Lanzetta a Monasterace, Elisabetta Tripodi a Rosarno, Carolina Girasole a Isola di Capo Rizzuto. Dall’altra, le figlie dei clan mafiosi che fermano la spirale crudele delle ’ndrine denunciando i loro uomini: dalla pentita Giuseppina Pesce a Lea Garofalo, uccisa a Milano nel 2009.


Battaglie agli antipodi, che pure compongono insieme un quadro mai visto: quello di una “primavera” calabrese che proprio nelle donne porta il germe di un risveglio. È la lettura dell’inviato del Corriere della Sera Goffredo Buccini, che ripercorre queste storie di coraggio al femminile nel libro L’Italia quaggiù (Laterza). Appena uscito e già bersaglio di boicottaggi via Facebook e attacchi, oltre che all’autore, alla sindaca Lanzetta. 

A chi dà fastidio il libro? 
È un meccanismo antico, un campanilismo peloso, secondo cui non è il delinquente a infangare un territorio, ma chi del delinquente parla. Già al tempo dell’omicidio in Sicilia di Emanuele Notarbartolo, nel 1893, nacque un comitato in difesa dei suoi assassini. Inoltre Lanzetta ha infastidito molti, anche ex amministratori: un misto di interessi compresa, immagino, la mano della ’ndrangheta. 
Tranne Carolina Girasole, candidata alla Camera con la lista Monti, le innovative sindache calabresi sembrano ignorate dalla politica centrale. Un’occasione persa? 
No, perché stanno facendo molto per le loro comunità ed è un bene che non vengano portate a Roma. In Calabria va ricostruito un tessuto connettivo con il potere centrale, e la credibilità dello Stato passa anche attraverso queste sindache. Sono di buona famiglia, hanno vissuto altrove per poi tornare a occuparsi della loro regione. Bisogna invece che sia Roma a scendere in Calabria, che lo Stato usi il ponte costruito da queste donne per mostrarsi qui. C’è stata un’apparizione fugace dopo il secondo attentato contro Lanzetta, ma quando la sua capogruppo di maggioranza s’è trovata con l’auto bruciata, la notizia non è neppure uscita sui giornali. 
Perché la Calabria resta ancora ai margini dell’interesse nazionale? 
La responsabilità è anche di noi giornalisti: dovremmo smettere di trattarla come una terra perduta, dove la gente se ne sta chiusa tra montagne e mare. L’Aspromonte e il santuario della Madonna di Polsi sono tra i luoghi più belli che io abbia mai visto. Il mare sembra caraibico, peccato che le spiagge siano piene di case abusive e spazzatura. Siamo noi giornalisti a dover trovare spazio per la Calabria e convincere i politici a occuparsene. 
Però anche dalle critiche al tuo libro emerge come “noi forestieri”, se parliamo di Calabria, a volte siamo accusati dai calabresi di trattarli come fenomeni da circo... 
C’è resistenza, ma non in tutti. Lanzetta è un esempio straordinario di apertura: lei teorizza di dare il giusto nome alle cose, di parlare, e per questo subisce tentativi quotidiani di delegittimazione. E poi dobbiamo cancellare l’idea che la ’ndrangheta sia una robetta di pastori: è invece l’organizzazione criminale più forte e ricca d’Italia, e le inchieste milanesi dimostrano che ha una cupola anche al Nord. È la prima emergenza criminale del Paese, dunque la Calabria è una regione che non possiamo abbandonare.
Sei convinto che Lanzetta e le altre rappresentino non singoli casi felici bensì l’embrione di un movimento?
Sì, sono i volti di un risveglio più ampio, che può estendersi anche oltre la Calabria. C’è un collegamento profondo tra le sindache, da un lato, e le testimoni di giustizia, dall’altro: il coraggio delle prime potrà aiutare altre donne a capire che c’è un altro mondo, al di fuori delle leggi criminali imposte da padri, mariti e fratelli. 
Nel tuo libro c’è una voce scettica, la giudice di Locri Katy Capitò, che dice: «Le donne hanno assunto un ruolo dirigenziale nelle cosche. Chi prova a uscire paga moltissimo». E sostiene che senza un aiuto economico dallo Stato, quelle che pensano di ribellarsi non andranno fino in fondo. 
Roma deve scendere in Calabria anche in questo senso: mettere insieme strumenti economici e normativi per aiutare le donne a uscire dal sistema delle ’ndrine. Il desiderio già lo nutrono: per amore dei figli, per dare loro un futuro diverso.


da Io donna, 23 febbraio 2013
Foto: Maria Carmela Lanzetta, sindaco di Monasterace. Foto da Calabria Ora

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