LA SECONDA VITA DI SHADY

Foto di Emanuele Satolli

A soli 24 anni, Shady Hamadi sperimenta già una seconda vita. Nella prima era un ragazzo milanese come tanti, tra università e uscite con gli amici. Finché, nel 2009, la morte della madre sfilaccia le sue radici italiane e lo spinge verso la Siria, la terra natale del padre che, dissidente politico, la lasciò negli anni Sessanta. Il giovane parte alla sua scoperta, e la rivoluzione che deflagra nel 2011 è rivoluzione anche dentro di lui. “Ho ascoltato i miei parenti in fuga dal villaggio, e i rifugiati in Libano... Tutto questo dolore mi ha fatto sentire in dovere di agire”.
Oggi Shady Hamadi scrive e tiene conferenze, tentando di sensibilizzare l’Italia sugli scempi in corso nel suo Paese e sulle responsabilità del presidente Bashar al-Assad: 70 mila morti, 200 mila incarcerati, oltre un milione di profughi, per due terzi donne e bambini. Il suo libro La felicità araba, in uscita per Add Editore, ricostruisce tappe e orrori del conflitto attraverso ricordi familiari, ritratti di vittime dimenticate e di coraggiosi attivisti. Con uno sguardo turbato ma razionale, fra diario e pamphlet.
L’immagine che subito ferisce, nel libro, è quella del tredicenne Hamza seviziato e ucciso nel maggio 2011. Perché tanta violenza contro un bambino?
La rivoluzione siriana è scandita dalla tragedia dei bambini. Il primo atto è del marzo 2011: una decina di ragazzini furono arrestati a Dar’a e brutalmente torturati. C’è stato poi il sacrificio di Hamza, che fu persino evirato. E il massacro di Houla, con decine di piccole vittime, ha spento ogni speranza di pacifismo dando il via alla lotta armata. Nella società siriana vige ancora l’onore familiare: toccare i bambini e stuprare le figlie di fronte ai padri significa umiliare, distruggere. Estirpare dai genitori ogni seme di libertà.
Racconti anche l’attivismo al femminile. Qual è la donna simbolo della rivoluzione siriana?
Sono tante, ma ne sceglierei due. La giovane giornalista Yara Badr, moglie di Mazen Darwish, attivista per la libertà di espressione. Lui è in carcere da mesi e non se ne hanno notizie: Yara continua a combattere per lui a Damasco. L’altra è l’avvocato Razan Zaithouni: il suo lavoro è, letteralmente, contare i morti. È grazie a lei se in Siria si possono dare alle vittime volti e nomi. E’ ricercata con l’accusa di essere una spia degli stranieri.
Il tuo libro è duro con i media. Parli di falsificazioni, errori, a partire dalla definizione di “guerra civile”. 
Questa è una guerra per la libertà del popolo dalla dittatura di Assad, non un conflitto tra parti della società. Sebbene sia vero che la tensione settaria cresce, alimentata dal regime, come quando a Homs l’esercito regolare stuprava le ragazze sunnite incolpando gli alawiti e i cristiani. I rivoluzionari vengono poi confusi con gli islamisti, che sono subentrati dopo. E non ha fatto notizia quando, a Homs, la gente fronteggiava i carri armati con rami d’ulivo e canti, in un’illusione di pacifismo. Nessun media arabo parla di guerra civile, bensì di rivoluzione e primavera. Perché, prima o poi, la primavera ci sarà.
E’ però sempre più pericoloso raccontare la crisi siriana. I giornalisti vengono uccisi, o sequestrati, come i 4 colleghi italiani rilasciati il 13 aprile.
I giornalisti devono continuare ad andarci. Certo, le brigate locali integraliste creano insicurezza. Manca lo Stato. Ma non si può abbandonare il nostro popolo al silenzio: Assad ha contato sulla chiusura ai media per preservare la sua immagine internazionale di non-dittatore, garante dell’equilibrio, e per certa estrema sinistra italiana resta un’icona di anti-imperialismo americano e un baluardo anti-israeliano. Nei miei incontri pubblici, quando parlo di lui come di un macellaio, non è raro che qualcuno mi si scagli contro.
Tu sei stato ascoltato dal Parlamento europeo e da quello italiano. Anche loro indifferenti?
Di certo nulla fu attuato. Se si fosse posto un embargo sulle armi e aperto un tavolo con Russia e Iran, la situazione oggi sarebbe diversa. Io non so come e quando finirà il massacro ma so che, per ogni mese di conflitto, ci vorrà un anno per la riconciliazione e la ricostruzione del tessuto sociale.

da Io donna, 18 maggio 2013

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