IN FUGA DAL NORD DEL MALI
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Sono in maggioranza tuareg, fuggiti dalla guerra che dall'inizio del 2012 infiamma il nord del Mali e rifugiati in Mauritania.
Reportage dal campo di Mberra, dove 75 mila persone si chiedono ogni giorno: quando finirà tutto questo?
Foto di Loris Savino
Sono in maggioranza tuareg, fuggiti dalla guerra che dall'inizio del 2012 infiamma il nord del Mali e rifugiati in Mauritania.
Reportage dal campo di Mberra, dove 75 mila persone si chiedono ogni giorno: quando finirà tutto questo?
Foto di Loris Savino
Il piccolo velivolo dell’Onu plana sulle repentine vene scure di un deserto sfumato d’ocra e rosso. La pista d’atterraggio è ingoiata dal nulla sabbioso di Bassikonou, un villaggio nell’angolo sudorientale della Mauritania, il cuore di un Sahel che a soli 50 chilometri da qui crepita di guerra. A est ci sono Timbuctu, Gao, Kidal. C’è l’Azawad, il nord del Mali, dove le truppe francesi combattono i ribelli. Doveva essere un intervento-lampo, e invece nel nord del Mali si teme ormai un “Africanistan”: un conflitto interminabile come quello in Afghanistan.
A poca strada di jeep dalle case in fango di Bassikonou, dal suo mercato maleodorante di quarti di bue sfasciati dal sole, c’è la città artificiale eretta da questa guerra. E’ il campo di rifugiati di Mberra, 320 ettari a contenere la disperazione di oltre 75 mila individui. Ne arrivano 250 al giorno, in fuga dal sangue e dai saccheggi, e sono per lo più donne e bambini perché tanti uomini restano in Mali con il bestiame, pregando che il flagello si plachi. Secondo l’Alto commissariato Onu per i rifugiati, la crisi scoppiata nel Sahel all’inizio del 2012 ha sradicato 430 mila maliani: 260 mila sfollati nel loro Paese, mentre gli altri sono riparati in Burkina Faso, Niger, Algeria. Ma è la Mauritania ad accoglierne il maggior numero, aumentato da gennaio dopo l’operazione Serval della Francia.
Siamo arrivati qui con Intersos, l’unica organizzazione italiana impegnata nel campo di Mberra. Che è considerato un luogo ad alto rischio. “Potrebbero infiltrarsi elementi indesiderati” ci allertano dall’agenzia Onu per i rifugiati, e l’eufemismo indica i terroristi islamici che imperversano poco lontano: Aqmi, Mujao, Ansar Dine. Noi italiani, con i francesi, siamo considerati a maggior rischio di rapimento, così a Mberra si va soltanto in convoglio, con una scorta armata.
Il campo è una scacchiera di tende bianche nella monotonia di una sabbia colorata solo dai veli delle donne in cammino verso i pozzi. “I rifugiati sono al 90 per cento tuareg; gli altri sono songhai, arabi, peul, le vare etnie del Mali” spiega Elizabeth Kabankaya di Intersos. È lei, una dolcissima matrona congolese, a occuparsi di anziani e disabili, a liberare le bambine date in spose troppo presto, a trovare “balie da latte” per i neonati rimasti orfani. Le complicazioni al parto sono frequenti qui, come la malnutrizione, le infezioni respiratorie e la diarrea tra i bambini.
Per gli adulti, invece, il morbo più tenace è la rabbia. Quella che vela lo sguardo di Sanou Mint Alhad, quarantenne songhai imponente e tristissima, che dispiega il suo incubo a voce bassa. Un anno fa, nella regione di Timbuctu, il marito andava a vendere vacche a Léré con un gruppo di tuareg. “E’ stato ammazzato solo perché viaggiava con loro”. Sanou parte in cerca del cadavere, lo trova accanto agli animali rimasti vivi, lo carica sul carretto e lo seppellisce accanto a casa. Poi, con i sette figli e i sette nipoti già rimasti orfani, fugge a Mberra. Immobile nel caldo avvilente, continua a chiedersi perché.
La linea del fronte, in Mali, è porosa, e la lotta al terrorismo nell'area si miscela agli antichi odi etnici che affliggono il Paese fin dalla sua indipendenza. Secondo i tuareg dell'Azawad, da sempre emarginati, sono i bambara dell’esercito maliano, l’etnia nera del sud, a colpire i civili al nord. Il governo di Bamako incolpa invece le bande terroristiche, sostenendo che agiscano in connivenza con il gruppo ribelle tuareg Mnla, il quale a sua volta si proclama invece laico, estraneo al terrorismo e alla jihad islamica e unica guida per l’Azawad. E’ stato proprio Mnla a dichiarare la secessione del nord, nella primavera del 2012, ma ben presto gli islamisti hanno strappato ai tuareg il controllo del territorio. Oggi, la situazione non è che un groviglio di accuse incrociate.
“Non sforzatevi di dare una visione logica delle dinamiche dei gruppi ribelli: se ne formano sempre di nuovi, con nuove alleanze” ci allerta Alessandra Giuffrida, un’antropologa italiana specialista di società tuareg, venuta a Mberra a ritrovare le famiglie con cui aveva vissuto anni fa nel nord del Mali. “I terroristi erano presenti nell’area già nel 2006” prosegue “e c’è il rischio che il conflitto si estenda al Burkina Faso, al Niger, all’Algeria”.
Alcuni rifugiati di Mberra lo dicono senza troppi convenevoli: il precedente presidente maliano Amadou Toumani Touré, detto “Att”, si è spartito con i terroristi i profitti del traffico di droga e dei rapimenti. Non solo: i milioni di dollari investiti dagli Stati Uniti in Mali in funzione antiterrorismo sarebbero finiti in auto e ville con piscina per gli ufficiali dell’esercito. Facile, in questo quadro, strumentalizzare la ribellione dei tuareg al nord, attribuendo loro l'intera colpa dell’attuale anarchia.
Ma ai rifugiati interessano poco i giochi di potere. A loro importa che si agisca in fretta per risolvere la situazione, affinché possano tornare finalmente a casa. Alcuni sono rifugiati qui dagli anni Novanta, quando un'altra ribellione dei tuareg nell'Azawad scatenò una dura repressione da parte del governo maliano e un'altra fuga di massa.
“Chi mi restituirà il tempo perduto?” esplode Deija Mint Saloum, 22 anni, che scappando ha dovuto interrompere gli studi in legge. La incontriamo al centro di ricezione dei rifugiati, dove chi ha appena passato la frontiera attende assistenza sotto la flebile ombra di una pensilina. Gente d’ogni età, occhi disorientati. Deija è tra gli "operatori di comunità" formati da Intersos, quelli che sondano i bisogni delle persone: ora dialoga con una giovane che allatta due gemelli neonati, magrissimi, partoriti sulla strada dell’esilio.
“Chi mi restituirà il tempo perduto?” esplode Deija Mint Saloum, 22 anni, che scappando ha dovuto interrompere gli studi in legge. La incontriamo al centro di ricezione dei rifugiati, dove chi ha appena passato la frontiera attende assistenza sotto la flebile ombra di una pensilina. Gente d’ogni età, occhi disorientati. Deija è tra gli "operatori di comunità" formati da Intersos, quelli che sondano i bisogni delle persone: ora dialoga con una giovane che allatta due gemelli neonati, magrissimi, partoriti sulla strada dell’esilio.
In una delle sei scuole del campo, i bambini seguono composti le lezioni di francese e arabo sotto le tende dell’Unicef. “Scegliamo gli insegnanti tra i rifugiati” spiega Federica Biondi, capo missione di Intersos in Mauritania, che ci fa da guida in questo universo sospeso. “Grazie all’Onu riusciamo a stipendiare 72 insegnanti e stiamo costruendo altre 48 aule, ma i bisogni crescono di giorno in giorno”.
Intersos ha anche creato spazi per il tempo libero degli adolescenti, per impedire al loro ozio forzato di deflagrare. Il timore è che i siano reclutati dalle bande terroristiche che percorrono spesso questo confine, ma i rifugiati tuareg giurano di non essere terreno fertile per la jihad islamica: “Siamo laici, liberi. Siamo tutti con l’Mnla” afferma Maya Waled Mohamedoun, che in Mali aveva una vita agiata e qui nel campo ha tentato di ricostruire un caldo ambiente domestico arredando la sua tenda con divani colorati e cuscini ricamati. “Mio marito era comandante dell’esercito", prosegue. "Abbiamo servito lo Stato maliano, ma non conta nulla perché non siamo di etnia bambara. Ci hanno cacciati, ci hanno tagliato la gola, ci hanno uccisi come mosche... A Léré, l’esercito maliano ha appena ammazzato mio nipote... Io ricordo bene l’operazione Kokadje degli anni ’90. Kokadje significa pulizia etnica: era il piano dello Stato maliano per fare piazza pulita di tutti i tuareg del nord”.
Intersos ha anche creato spazi per il tempo libero degli adolescenti, per impedire al loro ozio forzato di deflagrare. Il timore è che i siano reclutati dalle bande terroristiche che percorrono spesso questo confine, ma i rifugiati tuareg giurano di non essere terreno fertile per la jihad islamica: “Siamo laici, liberi. Siamo tutti con l’Mnla” afferma Maya Waled Mohamedoun, che in Mali aveva una vita agiata e qui nel campo ha tentato di ricostruire un caldo ambiente domestico arredando la sua tenda con divani colorati e cuscini ricamati. “Mio marito era comandante dell’esercito", prosegue. "Abbiamo servito lo Stato maliano, ma non conta nulla perché non siamo di etnia bambara. Ci hanno cacciati, ci hanno tagliato la gola, ci hanno uccisi come mosche... A Léré, l’esercito maliano ha appena ammazzato mio nipote... Io ricordo bene l’operazione Kokadje degli anni ’90. Kokadje significa pulizia etnica: era il piano dello Stato maliano per fare piazza pulita di tutti i tuareg del nord”.
In gennaio, la Corte penale internazionale ha aperto un’inchiesta sulle responsabilità dei massacri in Azawad, e a Mberra ci imbattiamo in un uomo che potrebbe diventare un teste chiave, se solo qualcuno lo venisse a cercare: “Sono partito da qui per vendere merci al mercato di Niono, in Mali” riferisce. “Sul furgone c’erano uomini che non conoscevo. Al crepuscolo ci hanno fermati a un posto di blocco vicino a Diabaly, e all’improvviso hanno aperto il fuoco contro di noi. Io sono fuggito, camminando cinque giorni e cinque notti per tornare a Mberra. Qui ho saputo che, dei 18 viaggiatori che eravamo, siamo sopravvissuti soltanto in due”. Era il massacro di Diabaly dell’8 settembre 2012: 16 religiosi disarmati, uccisi. Uno dei fatti su cui indaga la Corte dell’Aja, e il nostro testimone non ha dubbi: “A sparare erano i militari maliani”.
“Siamo sull’orlo di un genocidio” mormora Zakiyatou Oualett Halatine, tra gli altri 15 mila maliani profughi a Nouakchott, la capitale della Mauritania a quattro ore di volo da Mberra. Prima dell’esilio, Zakiyatou è stata ministro in Mali, funzionaria Onu e imprenditrice a Kati, vicino a Bamako, una città a maggioranza bambara. “Già nel ’91 l’esercito aveva ucciso mio zio e distrutto la casa di mia madre. Ma io desideravo restare a casa mia, a Kati: ho sempre pensato che fossimo tutti uguali - bambara, tuareg, arabi... - e tutti con gli stessi diritti. A febbraio del 2012 cominciai a notare che gli sguardi dei miei vicini stavano mutando. Non mi salutavano più per strada. Una notte mi sono svegliata di soprassalto, ho iniziato a riempire una valigia e ho atteso il mattino per prelevare dei soldi in banca. Volevo fuggire, ma mio marito mi ha trattenuta dicendo che non ci sarebbe successo nulla. Quello stesso giorno, la farmacia e la clinica di mia sorella sono state date alle fiamme. Poco dopo, hanno distrutto la mia casa e il mio ufficio”.
Zakyietou mostra le foto di una vita andata in pezzi: macerie, vetri rotti, e l’ultima figlia che solo per un soffio è stata risparmiata dalla furia di chi voleva colpire la famiglia tuareg più in vista della città. Tutta la famiglia fugge a Parigi, “ma poi ho preferito stabilirmi a Nouakchott per seguire da vicino la causa della mia gente”.
Zakyietou mostra le foto di una vita andata in pezzi: macerie, vetri rotti, e l’ultima figlia che solo per un soffio è stata risparmiata dalla furia di chi voleva colpire la famiglia tuareg più in vista della città. Tutta la famiglia fugge a Parigi, “ma poi ho preferito stabilirmi a Nouakchott per seguire da vicino la causa della mia gente”.
Di lunedì, le tuareg maliane a Nouakchott pestano miglio in un mortaio, lo mischiano al latte e offrono la pastosa bevanda ad Allah implorando la pace per la loro terra. Ci ha invitati Hadija, una quarantenne bella ed elegante. Racconta che era giovane e incinta quando i militari irruppero nella sua casa di Timbuctu. La stuprarono. Costrinsero il marito a guardare la violenza e poi lo uccisero. Lei lasciò per sempre il Mali. Era il 1994. “Non è cambiato nulla”. E il suo pianto non fa rumore.
Da Io donna, 1 giugno 2013, e anche sulla rivista Africa, luglio-agosto 2013.
Grazie a Intersos e a UNHCR.
L'articolo, come TUTTI i contenuti di questo sito, è di esclusiva proprietà dell'autrice. Ne è quindi vietata la riproduzione con qualsiasi mezzo, senza chiedere preventivamente l'autorizzazione a Emanuela Zuccalà. E' invece benvenuta la citazione su altri siti e social network, purché contenga il link a questo sito.
Da Io donna, 1 giugno 2013, e anche sulla rivista Africa, luglio-agosto 2013.
Grazie a Intersos e a UNHCR.
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