IL NOSTRO OBIETTIVO DEL MILLENNIO


In due distretti nel sudovest dell'Etiopia, si combatte (e si vince) una guerra giusta: quella contro la mortalita' materno-infantile. 
Foto di Francesco Alesi per Save the Children Italia

Ridono di levità e d’imbarazzo, nascondendo la bocca con una mano. Si scambiano sguardi brillanti, cercando il rifugio di un’approvazione collettiva. In un attimo, realizzano che i loro pancioni sono bellezza, così come le t-shirt da uomo che indossano, ampie e colorate, e le lunghe gonne a pieghe. 
Per le donne etiopi che vi guardano da queste fotografie, è una giornata speciale. Non solo perché un fotografo straniero le chiama una alla volta e le prende per mano, mettendole in posa come modelle davanti a un telo di plastica gialla che qualcuno ha trovato in magazzino. Per molte di loro, la più importante “prima volta” di oggi è la visita medica: hanno cinque, sei, anche sette figli, ma prima d’ora non avevano mai incontrato un operatore sanitario.

Hanno partorito nelle loro capanne o fra le foglie dei banani, affidandosi ad anziane levatrici o soltanto alla propria tenacia. E alcuni figli li hanno persi, vittime di infezioni e polmoniti nei primi giorni di vita. Ma poi altre donne hanno sparso la voce ed eccole qui in attesa del controllo, del test per l’Hiv, della lezione su come preparare bevande nutrienti per i bambini.
Queste madri vivono a Busso, un villaggio nel Sud-Ovest dell’Etiopia, verso il confine con il Kenya, adagiato sul fianco di una vallata rigogliosa e disegnato a capanne circolari coperte da tetti di paglia aguzzi. Il distretto di Konso è uno dei paesaggi più affascinanti dell’Africa orientale, patrimonio dell’Unesco perché costellato da waga, totem in legno secolare a figura umana che presidiano come vedette le terrazze di pietra. Ma questa terra vanta ora un’altra peculiarità, solo umana: la riduzione drastica della mortalità materno-infantile.
Se qui, fino a tre anni fa, una donna su dieci riceveva assistenza sanitaria prima, durante e dopo il parto, oggi la percentuale ha raggiunto il cento per cento. «Un dato storico» commenta Marco Guadagnino di Save the Children Italia, che nei distretti etiopi di Konso e Alle ha realizzato l’esperimento: aprire 93 centri sanitari in campagne dove l’ospedale più vicino dista cinquanta chilometri su vie montuose e impossibili; istruire 250 operatori stipendiati dal governo, in maggioranza donne, che girano in moto per i villaggi ad ascoltare bisogni e problemi, capaci anche di somministrare antibiotici e alimenti terapeutici ai piccoli malnutriti. I beneficiari del programma sono 150 mila, in quest’area, «ma il modello è replicabile ovunque» spiega Guadagnino «perché il principio è semplice: non fare nulla che non sia prima condiviso dalla comunità. Così abbiamo insegnato alle madri l’importanza dell’allattamento al seno. Abbiamo portato attrezzature, medicine, guanti, disinfettanti per le sale parto e, dove possibile, frigoriferi per conservare farmaci e vaccini. Gli operatori sono del luogo e hanno conquistato la fiducia dei capi villaggio, degli anziani, persino delle levatrici tradizionali».
Quelle che appendevano le partorienti per le braccia ai rami degli alberi, dicendo che il travaglio sarebbe finito più in fretta, e oggi, dopo la formazione di Save the Children, si sono trasformate in brave ostetriche. È anche grazie a loro se partorienti e neonati smettono di morire: a confronto con le statistiche dell’Etiopia, è un grande risultato. Secondo lo studio Mondi Dispari, realizzato da Save the Children incrociando varie fonti, il Paese conta un unico operatore sanitario ogni quattromila abitanti (in Norvegia, per esempio, il rapporto è di uno a 53). Nelle zone rurali, solo il cinque per cento delle donne sono assistite al parto, contro il 52 per cento delle città. Nel Mothers’ Index di Save the Children, il rapporto sulla salute delle madri in 176 Stati, l’Etiopia si colloca al 141° posto ed è tra i dieci Paesi con il tasso più preoccupante di decessi neonatali. Colpa della povertà, ma soprattutto di una rete sanitaria insufficiente, perché spesso ci si spegne per cause che altrove si curerebbero facilmente.
Misone sa di aver avuto fortuna. Ha un sorriso generoso, i capelli raccolti in un foulard a rete mentre saluta fuori dalla sua capanna Betheliem, responsabile del presidio sanitario di Mechello. È una ragazza di 27 anni, bella e già autorevole, che arriva rapida in camice bianco e scarpe con i tacchi: prima di incontrarla e di fidarsi di lei, Misone ha rischiato più volte la vita. «Ho avuto due parti dilanianti, con doglie interminabili » racconta «e la levatrice sapeva solo ripetere: siediti. Avevo emorragie e i miei figli soffrivano di forti dolori allo stomaco nei primi due mesi di vita. Finché il terzo parto, gemellare, mi provocò una grave anemia». Così ha conosciuto Betheliem: la giovane l’ha convinta ad andare al centro sanitario, Misone era diffidente ma stava troppo male. Ha accettato di restare per tre mesi, in osservazione e finalmente a riposo. 
Degli otto Obiettivi di sviluppo del Millennio, le sfide globali per il 2015 che l’Onu pare ormai rassegnata a non vincere, il quarto e il quinto sulla mortalità materno infantile sono tra i più fallimentari. Se la lotta alla povertà progredisce (la percentuale di chi vive con meno di 1,25 dollari si è più che dimezzata, dal ’90), la mortalità dei bambini sotto i cinque anni è scesa solo del 41 per cento, contro i due terzi previsti, e quella delle partorienti del 47, contro i tre quarti sperati. Ecco perché il sorriso delle madri di Busso, qui in posa come modelle, non è un sorriso di circostanza.
da Io donna, 12 ottobre 2013

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