LA MIA BATTAGLIA PER LE DONNE AFGANE

Foto di Mattia Zoppellaro

A soli trent’anni, Selay Ghaffar ha già affrontano una lunga battaglia per i diritti delle donne nel suo Paese, l’Afghanistan. Quando era adolescente e rifugiata in Pakistan, durante la guerra civile e poi il regime talebano, ha riunito un gruppo di coetanei per insegnare a leggere e scrivere alle bambine. “Convincevamo le famiglie a mandarle a scuola” racconta con un eloquio serrato, a tratti rabbioso, durante il nostro incontro a Milano, dove è ospite dell’associazione Cospe.
Oggi Selay è una delle voci più autorevoli della società civile afgana. La sua associazione Hawca accoglie ogni anno centinaia di donne vittime di violenza nelle case-rifugio di Kabul, Herat e Jalalabad, fornendo loro assistenza legale e formazione affinché imparino un mestiere e si rendano indipendenti. Gli operatori girano per le aree più remote del Paese, “per fermare i matrimoni precoci, spiegare alle donne che hanno dei diritti e incoraggiarle ad aiutarsi a vicenda”. Lei è stata minacciata di morte, il suo ufficio di Kabul attaccato, ma non ha mai pensato di defilarsi: “Sono stata profuga per oltre 15 anni, ho sofferto con la mia gente. E mio padre mi ha insegnato che la vita ha senso se è spesa per migliorare il futuro dei nostri figli”.
Com’è cambiata la condizione femminile, dopo la caduta dei talebani?
È peggiorata. Sotto i talebani, le donne erano private dei diritti basilari: studiare, lavorare, uscire di casa da sole. Dopo il 2001 la violenza di genere e la discriminazione hanno preso altre forme ma sono aumentate. Oggi si registrano più abusi sessuali sulle bambine e stupri di gruppo all’interno della famiglia. Anche se abbiamo delle leggi anti-violenza, la polizia e i giudici continuano a garantire l’impunità ai responsabili. E crescono i suicidi tra le vittime: molte si danno fuoco, perché in casa non hanno altri metodi per togliersi la vita. C’è poi un diffuso traffico di ragazze, forzate a mendicare e a prostituirsi, e alcuni trafficanti siedono nei palazzi del governo. Per questo è peggio: oggi la violenza è perpetrata da chi si dichiara difensore dei diritti umani.
Il tasso di analfabetismo delle donne afgane è ancora altissimo, l’87 per cento contro il 57 degli uomini. Perché non sono avvenuti progressi?
Il governo dovrebbe aprire scuole femminili in tutte le 34 province ma non lo fa, nonostante i miliardi di dollari arrivati dall’estero. In certe zone, le bambine distano 4-5 ore di cammino dalla scuola e non esistono trasporti. Il ministro dell’Istruzione continua a parlare di miglioramenti, ma la verità è che la corruzione del governo è il primo ostacolo all’educazione delle donne afgane. Nelle aree controllate dai talebani, poi, le scuole femminili vengono chiuse o date alle fiamme, e lungo il tragitto molte ragazze sono rapite, stuprate o sfigurate con l’acido.




Ci sono delle piccole Malala Yousafzai, in Afghanistan?
Malala è una ragazza molto coraggiosa, ma per me non è così sorprendente. Tante ragazze afgane sono aggredite e uccise perché vogliono studiare, e nessuno lo sa. Quando ho iniziato a occuparmi dei rifugiati avevo solo 13 anni ed eravamo tante coetanee: in Afghanistan i giovani si impegnano affinché il dolore non si tramandi alle generazioni future.
Come vorrebbe che i media occidentali raccontassero il suo Paese?
Mi dà fastidio quando dicono che in Afghanistan ci sono stati progressi perché, rispetto ai miliardi di aiuti arrivati, non è successo nulla. I giornalisti interpellano il governo e non la gente. Spesso non escono da Kabul e parlano solo delle donne con il burqa, come se fosse il loro problema principale. Anch’io vesto il burqa in certe zone, per non dare nell’occhio, e altrove metto la minigonna. Le sfide delle afgane vanno ben oltre l’abito che indossano.
Qual è il suo risultato più importante, in questi anni di impegno?
Qualsiasi cosa si faccia in Afghanistan sembra nulla perché c’è troppo da fare. Ma delle migliaia di donne che abbiamo aiutato, ne ricordo una che era totalmente analfabeta e aveva sofferto moltissimo, e oggi è diplomata e infermiera. Altre gestiscono attività commerciali e mantengono i figli senza dipendere più da nessuno. Aiutare anche una sola donna a cambiare la sua vita, per me è già una grande rivoluzione. 

da Io donna, 30 novembre 2013. Grazie a Cospe

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