LA FELICITÀ SECONDO NOI


Che cos’è la felicità? Il quesito suona al limite del tabù, in tempi di crisi e di sfilacciamento di ogni certezza. Felicità può ancora significare godimento, libertà dalle preoccupazioni? Oppure è lo scoprirsi resilienti, cioè bravi a parare i colpi della vita e ad “autoripararsi”, come concludeva lo Studio Grant condotto negli Usa per quarant'anni sulle vite di 268 uomini? O, ancora - ipotizza la scrittrice Daniela Gambino nel libro Ma tu sei felice?, Edizioni di Passaggio - reagire all’avvilimento, porsi in ascolto e chiedersi “io che posso fare”?
Nei luccicanti giorni pre-natalizi, in cui mostrarsi felici sembra quasi un dovere sociale, rivolgiamo la domanda a cinque persone dalle storie speciali. Uomini e donne che hanno perso tutto tranne la forza del sogno. Vivono a Milano. Sono tra i cinquantamila senza fissa dimora in Italia e tra i quasi cinque milioni in condizioni di povertà assoluta. E ci restituiscono un sapore puro, senza orpelli, della parola che tutti vorremmo possedere.
(foto di Mattia Zoppellaro



Un futuro per mio figlio
“Lavoravo. Una vita normalissima. L’auto, la moto, la palestra, le vacanze. In un attimo si è dissolto tutto”. Andrea parla piano, soppesa ogni parola. Nel 2009 perde il posto da magazziniere, e con la moglie sono solo discussioni: “E’ stato doloroso decidere di andarmene”. Per 3 anni lo ospita la sorella, “ma non volevo essere di peso, non mi sentivo uomo. Ho preferito vivere per strada”. La prima notte alla Stazione Centrale di Milano “è stata brutta”, e solo ora Andrea si blocca, si commuove. “Ci ho dormito per sei mesi, a terra, accanto alla polizia perché avevo paura. Pensavo sempre a mio figlio: ha undici anni, è affetto da sindrome di Down ed è un amore”. Non l’ha visto per parecchio tempo, una sofferenza più acuta di tutto il resto. “Ho chiesto aiuto ai servizi sociali, e due mesi fa mi hanno accolto in una comunità della Cena dell’Amicizia”. A 48 anni, Andrea si sente come un bimbo che impara a camminare: “Qui ho trovato sostegno e finalmente vedo mio figlio. La felicità? Lavorare per dargli un futuro”.


In barca sul Mar Nero
Nurtyan ha 58 anni e viene dalla città bulgara di Varna, sul Mar Nero. “Da giovane ero nella Nazionale di canottaggio e di karate. Dopo la laurea in Agraria ho insegnato, ma con la fine del comunismo la misera s’è fatta più nera. Ero divorziata, ormai senza lavoro, così sei anni fa sono venuta in Italia per aiutare i miei due figli a mantenere le loro famiglie”. Va prima in Calabria, dove fa la badante e raccoglie olive, e poi a Milano. Trova solo impieghi saltuari, in nero: manda il più possibile ai figli, e presto finisce per strada. “Più volte sono stata aggredita, ma ho rispolverato le mie mosse di karate. Ai miei figli dico che va tutto bene: non voglio disturbare”. Adesso dorme in un centro notturno della Fondazione Progetto Arca e passa le giornate cercando lavoro. “Ho appena fatto la badante per pochi giorni: 120 euro li ho spediti a mia figlia e in tasca ne ho cento. Sono contenta”. Finalmente sorride. Mostra la foto del nipotino Angel, di nove anni, che non vede da tanto: “Per me la felicità è uscire in barca a pescare con lui, sul Mar Nero, come facevo da piccola con mio padre. E mostrargli il panorama della Spiaggia d’oro di Varna”.


Una scuola in Togo
Se davanti alle chiese milanesi vi imbattete in questo signore 68enne che vende il giornale della Caritas Scarp de’ Tenis, sappiate di avere di fronte un romanzo vivente. Le avventure di Alex cominciano quando, a 19 anni, lascia Rovigo per lavorare da chef negli hotel d’Italia e d’Europa. Guadagna bene, compra una barca per un’altra avventura per mare, ma un giorno la vede affondare. “Ho messo la testa a posto, mi sono sposato e sono tornato a Rovigo a gestire un ristorante. Con mia moglie però non andava: ho fatto le valigie lasciandole tutto”. Svizzera, Spagna, infine Marocco: Alex apre una società ittica, ma un carico di pesce al mercurio lo rovina di nuovo. Riparte per il Togo con un commercio di alimentari, “finché la crisi mi ha buttato per terra”. Ha bisogno della pensione e rientra in Italia ad avviare pratiche infinite: “Dovevo fermarmi quattro mesi, invece sono tre anni. Ho finito i soldi e mi sono ritrovato al dormitorio pubblico. La mia felicità? Tornare in Togo e aprire una scuola per i bambini di strada. Non morirò qui da homeless”.


La famiglia di nuovo unita
“In Ucraina lavoravo 18 ore al giorno per 80 euro al mese e non riuscivo a mantenere i miei tre figli”. Anna ha 33 anni, occhi azzurri incantevoli e velati di tristezza mentre racconta del marito, violento e nullafacente. Lei arriva sola in Italia 5 anni fa: incontra un altro uomo, s’illude che sia amore, resta incinta. “Invece lui era sposato. L’ho lasciato”. Anna lavora fino al giorno prima del parto, per non perdere il posto in un’impresa di pulizie. E un giorno spunta il marito dall’Ucraina, dice di volersi occupare della bimba, lei si fida. Ma lui la picchia ancora. Arriva a denunciarla per maltrattamenti sulla piccola, e a fargliela togliere dai servizi sociali. Dopo un anno di angoscia, oggi Anna e la bimba sono finalmente insieme in una comunità della Fondazione L’albero della vita. “La mia felicità” sussurra “è quella di ogni donna del mio Paese costretta a staccarsi dai figli: portarli in Italia, farli studiare. Essere di nuovo una famiglia”.


Un regalo per il mio bambino
“Gli amici mi dicevano “Milano è bella”, così da ragazzo sono scappato da Bari”. Giovanni, 54 anni, conosce bene la strada: “Se lavoravo e avevo soldi, dormivo in albergo, altrimenti la mia casa era la Stazione Centrale”. Confessa di aver iniziato a bere da bambino, e non ha smesso nemmeno dopo il matrimonio e i quattro figli. Confessa anche di aver picchiato la moglie: “Mi sono fatto due anni di carcere, li meritavo, poi lei mi ha detto: “Ti do l’ultima chance”. Ma non lavoravo, ero depresso, ho ripreso a bere peggio di prima e lei ha chiesto la separazione”. Quattro anni fa Giovanni torna nella “sua casa”, la stazione. Finché lo accolgono alla Cena dell’Amicizia, dove tentano di ricomporre la sua vita in pezzi. “Sono sobrio da 160 giorni, e vedo il mondo con occhi nuovi”. Sta ricostruendo il rapporto con i figli, soprattutto con il piccolo di otto anni: “Prima aveva paura di me, si nascondeva. Ora è affettuoso e passiamo ogni sabato insieme”. Cos’è la felicità, Giovanni? “Avere un lavoro per fare un regalo di Natale al mio bambino”.

da Io donna, 13 dicembre 2013.
Grazie a Cena dell'Amicizia, Fondazione Progetto Arca, Fondazione Albero della vita, Scarp de' Tenis, Caritas Ambrosiana.

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