26 APRILE 1986, A CHERNOBYL




26 aprile 1986: esplode il reattore numero 4 della centrale nucleare di Chernobyl, in Ucraina. Una catastrofe. La Tass, l’agenzia di stampa sovietica, comunica la notizia al mondo solo due giorni dopo, insabbiando la portata devastante della catastrofe: 250 milioni di curie che ricoprono di radioattività 145 mila chilometri quadrati fra Ucraina, Bielorussia e Russia, abitati da dieci milioni di persone.
Ho scritto diversi reportage per il decennale di Chernobyl, nel 2006. E nel 2007 ho visitato l'ospedale oncologico di Kiev, reparto pediatrico, dove erano ricoverati bambini le cause della cui malattia erano riconducibili all'esplosione atomica.
Mentre scrivevo, la realizzazione del nuovo sarcofago per coprire il reattore numero 4 e renderlo finalmente innocuo era prevista per il 2010. Poi è slittata al 2015, con un costo di 750 milioni di euro che avrebbero dovuto essere coperti in parte dall’Unione Europea, in parte dall’Ucraina. Ma con la crisi scoppiata in questo Paese, la "riparazione" dell'enorme danno di Chernobyl resta incerta. Dopo 28 anni.

Lavoravo in una pasticceria... Preparo una torta e le lacrime vengono giù.
Non è che pianga, sono le lacrime che scorrono per conto loro...
Avevo chiesto alle altre ragazze una cosa sola: “Non mi compatite.
Se cominciate a compatirmi me ne vado”.
Volevo essere come tutti...
(Svetlana Aleksievič, Preghiera per Chernobyl)

Oksana fuma accovacciata fuori dal palazzaccio grigio, stretta in un giubbotto rosa confetto a buon mercato, gli occhi azzurri cerchiati da occhiaie di sfinimento e il sorriso finto che indossa da tre mesi. Da quando sua figlia Karina, sette anni, è ricoverata per un cancro ai polmoni all’ospedale oncologico di Kiev, che dipende dall’Accademia Statale delle scienze e ogni anno accoglie 350 bambini da tutto il Paese affetti da tumori solidi ai polmoni, al cervello, alle ossa, ai reni.
E’ il più rinomato in Ucraina, questo reparto al piano terra oltre l’atrio con i cavi elettrici a penzoloni e la polvere tenace. Odora forte di minestra e ha stanze a tre e cinque letti che danno su un cortile disseminato di bottiglie e brandelli di mobili. Oksana ha appeso dietro al letto della figlia un tappeto celeste: per proteggerla da un immeritato squallore e regalarle l’illusione di stare in una cameretta calda che guarirà il suo male.

Aliosha, 11 anni. Lo hanno sistemato su una branda di fortuna nello stanzino dei frigoriferi per i campioni di sangue. Nel reparto non c'era più posto.
Gli occhi di Karina restano torvi, incollati al letto cosparso di bambole Barbie e pupazzi. Si lascia andare quando entriamo con le Polaroid, per un improvvisato stage di fotografia che fa sollevare dal cuscino anche Alisa, tredici anni, fino a poco fa paralizzata dalla nausea. Un’euforia estemporanea che coinvolge le mamme, i medici e gli infermieri in una giostra di scatti come a immortalare un momento speciale. E le risate dei bambini sono esauste e preziose.
Sono venuta in questo ospedale nel quartiere Golosiivska, in una periferia distante anni luce dallo sfavillante centro di Kiev, insieme con Soleterre, un’organizzazione italiana che quattro anni fa ha scoperto che l’avanzato polo scientifico ucraino non ha cibo a sufficienza per nutrire i piccoli malati, perché qui la sanità pubblica stanzia quattro hrivne al giorno per i pasti, meno di mezzo euro. Con redditi medi di 200 euro al mese, le famiglie s’indebitano per comprare i farmaci che lo Stato garantisce a singhiozzo, e finiti i soldi non possono che portarsi a casa i figli, a morire.

Karina, 7 anni, con la madre Oksana. Per mesi i medici del loro paese nei Carpazi hanno scambiato per bronchite il tumore ai polmoni della piccola.
Le madri dormono con i bambini nei loro letti, cambiano le flebo e cucinano: sono giovani belle e insonni in pantofole e golfini ricamati, instancabili e prigioniere, spesso sole, lasciate dai mariti o dai fidanzati. Facevano le cuoche, le commesse, le maestre: tutte raccontano di aver perso il lavoro, il debole welfare ucraino non prevede l’aspettativa per chi ha un figlio malato e molte devono fermarsi qui persino un anno perché nelle loro città sui Carpazi o al confine con la Russia non esiste una sanità affidabile. L’amputazione è ancora la cura principale per i sarcomi ossei, come nell’Italia degli anni Settanta: fino a poco tempo fa, qui, si praticava con una sega manuale. In reparto mancavano il monitor cardio-polmonare e l’ecografo. La sala operatoria aveva strumenti antiquati.
Ora, grazie ai fondi donati dagli italiani, Soleterre fornisce un’alimentazione adeguata ai bambini e alle madri, macchinari moderni e un’assistenza legale gratuita affinché i pazienti ottengano l’assegno di invalidità, previsto dallo Stato ma soltanto in teoria. L’associazione italiana integra lo stipendio dei 17 infermieri per motivarli (guadagnano 50 euro al mese, i dottori 150), ha promosso una collaborazione scientifica con l’Istituto dei tumori di Milano e porta in corsia animatori e psicologi che aiutano i piccoli ad affrontare la malattia e i grandi a sfogare il dolore.

Bogdan, quattro anni, con la sua babushka.

“Non ci illudiamo di salvare delle vite: cerchiamo di rendere umano e dignitoso il percorso di questi bambini, di dar loro almeno il diritto alla speranza”, dice Valeria Gemello, responsabile di Soleterre a Kiev. Che denuncia un altro buco nero: le statistiche sul decorso delle malattie, totalmente inattendibili.
Secondo il primario Grygorij Klymnjuk, la metà dei pazienti guarisce. Ma durante il suo lavoro quotidiano qui, Soleterre ha appurato che solo il sette per cento ce la fa: una percentuale molto lontana da quella dell’Unione Europea dove, secondo uno studio dell’Istituto dei tumori di Milano, due terzi dei bambini affetti da tumori solidi sono vivi dopo cinque anni.


Impossibile non pensare a Chernobyl, al reattore numero 4 esploso nel 1986: la centrale nucleare, con le sue scorie radioattive che continuano a fluire dentro i fiumi, sta poco più a nord di Kiev. Elementi dannosi come il cesio e lo stronzio infettano terreni e colture e impiegheranno ancora secoli per estinguersi.
Tanti genitori, nell’ospedale oncologico, maledicono il disastro nucleare del 26 aprile 1986. Ma se per il cancro della tiroide è stata provata una correlazione diretta con la nube radioattiva, sui tumori solidi la scienza non sa che dire. Secondo Greenpeace, che ha diffuso una ricerca in polemica con l’ottimismo dell’Organizzazione mondiale della sanità e del Chernobyl Forum (un organismo legato all’Autorità internazionale per l’energia atomica, dunque a priori favorevole al nucleare), l’Ucraina ha visto triplicare queste patologie dall’86 a oggi, e nei bambini hanno colpito soprattutto le ossa e il cervello.

All’Accademia delle scienze di Kiev le opinioni sono contrastanti. Il dottor Klymnjuk esclude con decisione un legame fra i tumori solidi infantili e Chernobyl, mentre il primario di neurochirurgia pediatrica, Yuri Orlov, mostra un grafico che lascia pochi dubbi: “Nei cinque anni successivi all’esplosione”, spiega “i tumori al cervello infantili sono quasi triplicati. Dopo il 1996 la situazione si è stabilizzata, ma rispetto all’85, cioè a poco prima del disastro,  i casi risultano comunque doppi”.
Quella del professor Yuri Orlov è una voce scomoda in un Paese che ancora oggi, a oltre vent’anni dalla tragedia atomica, spende il sette per cento del suo prodotto interno lordo per tamponare gli effetti ambientali e sociali dell’incidente: se venissero riconosciute ufficialmente le conseguenze sanitarie su larga scala, arriverebbero in troppi a reclamare dei risarcimenti dallo Stato. E lo Stato non ha soldi.
“Io sono sicura che sia colpa di Chernobyl, dicono che gli effetti dureranno duecento anni”, sussurra Oksana, che per mesi si è sentita dire dai medici del suo villaggio che la figlia soffriva solo di una banale bronchite. “Chernobyl o altro, che importa ormai?” esplode Vera, un’altra madre sfinita: il suo Nikolaj, 17 anni e già senza una gamba, lo stanno mandando a casa senza troppe spiegazioni.

Ljuda, 10 anni, con la madre Erika.

Tina è fra le poche ragazzine ad avere accanto entrambi i genitori. Suo padre racconta di essere venuto dal Sud quattro mesi fa con settemila dollari in tasca: li ha già terminati fra le chemioterapie, gli antibiotici e le siringhe. Anche Lena, alta e bella, ragazza madre del piccolo Bogdan, rivela di aver speso 30 mila hrivne per le medicine, oltre 3.700 euro, e ora che è senza lavoro non sa che fare, e lo dice con un sorriso disarmato, un velo di ineluttabilità che copre ogni movimento e sguardo, qua dentro.
Eccetto gli occhi di Ljuda. Noto questa bambina per i suoi occhi verdi, grandi e allungati, le ciglia lunghe. Lei è senza capelli e senza una gamba, una protesi antiquata appoggiata al letto, con la quale - mi dicono - non è mai riuscita a muovere un passo, Ljuda abita in corsia da un anno e mezzo.  Non voglio chiedere a sua madre quale tumore abbia esattamente, non davanti a lei che saluta con calore, pretende ed elargisce baci affettuosi: una bimba di dieci anni sottilissima e dal volto magico. Sua madre mostra sul cellulare una foto della piccola com’era prima di ammalarsi: lunghi capelli folti e scuri, viso colorito, irresistibile piglio da monella. “Sei bellissima anche adesso”, riesco a dirle, perché è la verità.

Ma Ljuda non ci crede. E mi ringrazia lo stesso, a modo suo: regalandomi una carezza leggera sul viso, indulgente verso quella che crede una bugia pietosa. Ed è una carezza di quelle che non si dimenticano.

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