ALGERIA, PROVE TECNICHE DI DEMOCRAZIA
Amira Bouraoui arriva in piazza Audin, nell’affollato centro di Algeri, su un’utilitaria scura guidata da un’amica. Ascoltano a tutto volume Still Loving You degli Scorpions e, nel sole ancora alto del tardo pomeriggio, hanno l’aria innocua e spensierata di chi vada a divertirsi. Finché il giovane sul sedile posteriore, che si presenta come Sidali Filali, blogger dell’Huffington Post Maghreb, dissolve l’atmosfera conviviale: “Eccola, la donna più ricercata d’Algeria”. “Già” sorride Amira “ci controllano come se costruissimo la bomba atomica. Non sanno che invece costruiremo la bomba democratica”.
Questa ginecologa di 38 anni, madre di due bambini e figlia di un militare, è cresciuta nel quartiere popolare di Bab El Ouad tra i vicoli insanguinati dal terrorismo degli anni Novanta, ed è oggi il volto più noto del gruppo dissidente che ha movimentato le elezioni presidenziali algerine dello scorso 17 aprile.Si chiama Barakat, che significa “basta!”, si definisce un “movimento di cittadini” e ha rappresentato l’unica autentica novità in consultazioni soporifere terminate con la vittoria scontata dell’inestinguibile presidente Abdelaziz Bouteflika, in carica dal ’99.
Catalizzando il malcontento verso una politica stantia, Barakat ha piccole cellule in tutte le province dell’Algeria, quasi 37mila iscritti su Facebook e uno zoccolo duro nella capitale: una settantina di professionisti, giornalisti, funzionari pubblici tra i 20 e i 40 anni. Non ci sono leader ma solo portavoce, in una logica orizzontale antagonista a quella dei partiti.
Il movimento è nato in marzo, all’annuncio della ricandidatura di Bouteflika per il suo quarto mandato presidenziale. “Un affronto alle nostre intelligenze” esplode Amira Bouraoui. “Questo signore ha istituzionalizzato la corruzione e lasciato nel degrado settori strategici come sanità e istruzione. Lui stesso è andato a curarsi in Francia: evidentemente non si fida dei suoi stessi medici. Io lavoro in un ospedale pubblico, ogni giorno vedo due o tre donne ammassate nello stesso letto in attesa di partorire, oppure buttate sul pavimento con i loro neonati. L’immagine di un Paese allo sfascio”.
La salute del presidente 77enne è incerta dal 2005: dopo un infarto nel 2013, Bouteflika è in sedia a rotelle e non parla. E’ riuscito a prestare giuramento davanti alla nazione, dopo la rielezione, ma è stato completamente assente dalla campagna elettorale, condotta dal suo primo ministro Abdelmalek Sellal. “Nel ‘99, quando è stato eletto per la prima volta” prosegue Amira, “Bouteflika era salutato come il garante della ritrovata stabilità nazionale dopo il decennio nero del terrorismo. Oggi, però, molti hanno dimenticato che nel 2008 quest’uomo ha aumentato gli stipendi dei parlamentari per far passare la violazione della Costituzione, togliendo limiti ai mandati presidenziali e rendendosi eterno come un monarca assoluto”.
Arriviamo nel quartier generale di Barakat, un seminterrato dentro un palazzone grigio nella zona centrale di Telemly. Mentre si beve caffè ed entrano altri militanti, soprattutto giovani, Amira racconta la prima protesta da lei organizzata il 22 febbraio davanti all’università di Bouzareah. Aveva invitato all’indignazione i suoi contatti Facebook e distribuito T-shirt con scritto “No al quarto mandato!”. “Subito dopo mi hanno invitata a El Chourouk Tv, in un confronto con la parlamentare fedele al presidente Akila Rabhi. E’ stato facile: lei non aveva argomenti”. E mentre la fino ad allora ignota dottoressa Bouraoui mostrava alla nazione la sua verve polemica, a seguirla in Tv c’era anche Mustapha Benfodil, scrittore e giornalista del quotidiano indipendente El Watan. Anche lui aveva appena radunato una trentina di scontenti al Tantan Ville, storico caffè letterario di Algeri: ha contattato Amira e, insieme, hanno fondato Barakat. Primo atto pubblico: una manifestazione alla Fac Centrale, l’università di Algeri accanto alla centralissima piazza Audin: “La polizia ci ha dispersi e siamo stati portati in vari commissariati” spiega Amira. “Lì ci siamo conosciuti meglio e il movimento ha preso davvero forma”. Nella capitale, lo stato d’emergenza in vigore dai tempi del terrorismo vieta le manifestazioni: a due sostenitori di Barakat questo è costato 33 giorni di carcere prima del processo e poi una condanna a 6 mesi.
Come il 49% degli algerini, anche i membri di Barakat si sono astenuti dal voto. Ma intanto il 17 aprile Bouteflika stravinceva con l’81,5%, ed è adesso che per il “movimento di cittadini” si gioca la partita della credibilità. “Non basta più l’opposizione: è il momento di elaborare proposte concrete” ammette Mustapha Benfodil. “Stiamo preparando un manifesto politico, cercando di coinvolgere anche la gente delle campagne. E’ quella la vera Algeria: quella che vede in Bouteflika la pacificazione dopo il decennio nero del terrorismo, la stabilità, lo Stato. Nel nostro Paese è fortissimo il nazionalismo, accanto all’islamismo. Noi cerchiamo una terza via, quella della modernità”.
Riappropriarsi degli spazi pubblici, liberare la cultura, investire in sanità e istruzione, arginare l’islamismo: per ora sono questi i punti fermi di Barakat. E l’ultima battaglia che ha riportato in piazza i suoi membri è quella contro lo sfruttamento del gas da argille da parte di compagnie straniere, al quale il governo ha dato via libera il 21 maggio senza consultare il Parlamento. “L’Algeria non è in vendita” hanno tuonato durante un sit-in alla Grande Poste, l’8 giugno. “Lo sfruttamento del gas non convenzionale è un progetto distruttivo sul piano politico, economico ed ecologico, deciso senza il consenso del Consiglio nazionale dell’Energia, che è congelato da 15 anni”. La protesta ha fugato alcuni sospetti che circolavano sul movimento, riguardo a un suo orientamento iper liberista in economia. Terreno scivoloso, il liberismo, in un’Algeria che ancora vede il settore privato come un nemico e impone alle società straniere di operare con partner locali che detengano il 51% del capitale.
In un Paese in cui la disoccupazione è al 9,8% ma s’impenna oltre il 21% tra chi ha meno di 35 anni, per molti giovani colti e disillusi Barakat, pur nella sua attuale vaghezza romantica, ha acceso una speranza di svolta. Il ventiduenne Anis Saidoun, studente di Farmacia e attore di teatro, spiega: “Io non voglio emigrare come tanti miei coetanei, l’amore per l’Algeria è una droga, ma il sistema gerontocratico impedisce a noi giovani di fiorire. Ci rifugiamo su Facebook perché è l’unico terreno d’espressione che ci resta e, di fronte a uno Stato che vuole mantenere le masse ignoranti, persino leggere un libro o scrivere una poesia sono atti d’impegno. Ecco perché mi sono unito a Barakat”.
Ma quanto il movimento fa davvero paura alla politica? A giudicare dagli sforzi per screditarlo messi in campo dai media vicini al governo, come i canali televisivi Ennahar e Numidia News, una certa preoccupazione serpeggia. E’ stato scritto che Barakat sarebbe finanziato da Israele, Cia e Marocco, spauracchi perfetti per la maggioranza degli algerini. Amira Bouraoui racconta di essere costantemente pedinata, e che qualcuno ha fatto pressioni contro di lei ai suoi superiori in ospedale. Inoltre è stata accusata di praticare aborti clandestini (in Algeria l’aborto è illegale). Si è detto che dentro Barakat si nascondano islamisti del Fis (“Da noi sono benvenuti solo gli islamisti moderati, che lascino la religione fuori dalla politica” chiarisce Amira), e si insinua che Amira e Mustapha Benfodil cerchino solo visibilità personale: due intellettuali distanti dalla realtà e sotto sotto sprezzanti delle masse popolari che dicono di voler coinvolgere. L’interpretazione più esplosiva è però quella per cui Barakat spingerebbe per una “primavera araba”, rischiando di trascinare l’Algeria nello stesso caos di Libia, Egitto e Siria. “Mai” si scalda Amira. “Ricordiamo troppo bene i nostri 200mila morti negli anni Novanta. Noi vogliamo una rivoluzione pacifica. E se si soffoca una rivoluzione pacifica, allora sì che prima o poi dilagherà la violenza”.
UN'ECONOMIA FRAGILE
Una crescita mediocre (solo più 2,7% del Pil nel 2013 contro il 3,3 del 2012), per un’economia dalla fragilità strutturale basata solo sugli idrocarburi. L’ultimo rapporto sull’Algeria del Fondo monetario internazionale evidenzia le note dolenti dopo lo sgonfiamento del boom petrolifero. E la rielezione di Abdelaziz Bouteflika ha tutta l’aria di garantire il prolungamento di un paradigma economico che non regge più.
“Abbiamo già consumato oltre la metà delle riserve di gas e di petrolio” ha spiegato Abdelmadjid Attar, ex presidente di Sonatrach, la Società nazionale algerina per gli idrocarburi, a un forum organizzato il 18 giugno ad Algeri dal quotidiano Liberté. Attar ha prefigurato un crollo delle rendite da idrocarburi per il 2030, “poiché il consumo interno aumenta e il programma per le energie rinnovabili potrà soddisfare solo il 40% dei bisogni nel 2030”.
Ma il passaggio a un modello economico alternativo resta un miraggio. L’unica misura finora presa dal quarto governo Bouteflika è stata autorizzare le compagnie straniere a sfruttare il gas da argille, un idrocarburo non convenzionale situato a grandi profondità, la cui estrazione richiede procedimenti inquinanti. Un’avventura dai potenziali rischi ecologici che è stata molto criticata dall’opposizione e dalla società civile: “Il regime ha fatto delle risorse economiche un utile politico per la conservazione del potere, creando una coscienza collettiva dell’assistenza” ha dichiarato il sociologo Noureddine Hakiki.
Petrolio e gas rappresentano oggi il 98% delle esportazioni algerine (il 35% del fabbisogno italiano di gas metano proviene da qui). Con 1,26 milioni di barili al giorno, l’Algeria è terza solo a Libia e Nigeria, in Africa, per produzione di petrolio. Mentre gli altri settori languono: l’agricoltura rappresenta meno del 10% del Pil, e le importazioni sono costate 370 miliardi di dollari negli ultimi 15 anni. Intanto cresce la spesa militare, passata da 2,7 miliardi di dollari nel 2000 a 10,8 miliardi nel 2012, rendendo l’Algeria l’ottavo Paese al mondo per acquisto di armi.
La disoccupazione (al 9,8% ma al 21,35% tra i giovani) è, secondo gli esperti, una conseguenza di quest’economia non diversificata, della mancanza di un settore privato solido e indipendente e di un inarrestabile boom demografico. Gli algerini erano 18 milioni nel 1980, oggi sono 38 milioni e fra 10 anni toccheranno i 50 milioni, il 70% dei quali in età lavorativa. Oggi lo Stato, con due milioni di stipendiati, resta il primo datore di lavoro nel Paese e difficilmente reggerà il colpo della bomba demografica.
La Banca Mondiale e il Fondo monetario internazionale sottolineano la necessità di adottare strumenti legali e finanziari favorevoli all’emergere di una cultura imprenditoriale: secondo il rapporto “Doing Business 2013” della Banca Mondiale, l’Algeria è al 153° posto su 189 Paesi per la facilità di creare un’impresa.
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