BETLEMME, LE DONNE DI AIDA CAMP
Diari palestinesi/4
«Qua fuori, al di là della strada, c’era un prato. I bambini adoravano giocarci, e di venerdì le famiglie organizzavano pic-nic con montagne di cibo». Fatma s’interrompe di colpo. Abbassa gli occhi. Riprende: «Ora siamo in prigione», e rivolge lo sguardo opaco al muro di cemento oltre la finestra della stanza fredda, dove sta cercando di scaldarsi, con la cognata e la vicina di casa, accanto a una minuscola stufa elettrica tenuta insieme con lo scotch.
Fatma ha 36 anni e un viso
perfetto impreziosito dall’hijab a fiori celesti: gli occhi castano
chiaro brillante, le sopracciglia curate, l’incarnato di porcellana. È
nata ad Al Walaja, vicino a Gerusalemme. Quindici anni fa s’è
innamorata di un ragazzo di qui e ha trasferito la sua vita tra questi
edifici disarmonici e fatiscenti, anneriti dai gas lacrimogeni e dai
roghi delle rivolte. Dentro al campo profughi più incandescente della Cisgiordania.
Siamo a Betlemme, nel campo di Aida che esiste dal 1948, appena
superato il sontuoso hotel Intercontinental per i turisti in visita alla
Basilica della Natività. Oggi ad Aida abitano 5.500 palestinesi, per
due terzi minori di 25 anni. All’inizio, come negli altri campi profughi
palestinesi sorti dopo la dichiarazione dello Stato di Israele, stavano
nelle tende, poi in baracche di fortuna, e ora in appartamenti troppo
angusti per le loro famiglie numerose.
All’ingresso di Aida c’è una porta ad arco sovrastata da un’enorme chiave: la “chiave del ritorno”,
simbolo – ormai avvilito dagli eventi – della speranza di calpestare di
nuovo la terra che era stata loro prima del ‘48. E accanto il muro.
Alto, squallido, drammatizzato da graffiti che ritraggono arresti,
sommosse, volti di disperazione.
A
Betlemme, l’impatto con la “barriera di separazione” è più scioccante
che in altri luoghi della Cisgiordania. Nel 2002, dopo la seconda
intifada, Israele ne ha iniziato la costruzione in funzione
antiterroristica, chiamandola “chiusura di sicurezza”: oggi è completa
al 62% e lunga circa 700 chilometri, con un percorso frastagliato fatto
di lastroni di cemento, griglie d’acciaio, trincee. Solo il 20% del
tracciato segue la green line, il confine dell’armistizio del 1949. Il
resto è stato dichiarato illegale dalla Corte internazionale di
Giustizia. Inutilmente. Per i palestinesi, non è che il “muro della
vergogna” o “dell’apartheid”.
Nel 2005 il writer britannico Banksy,
quando ancora non era una star mondiale della street art, è venuto a
colorarlo con i suoi graffiti. Su una casa di Betlemme c’è la sua famosa
colomba della pace trasformata in un bersaglio di guerra dal giubbotto
antiproiettile e dal mirino al cuore, pronta a ricevere le pallottole. E
in una curva della massiccia muraglia, un giovane palestinese ha aperto
un negozietto dove vende poster e T-shirt con i disegni dell’artista.
Dal tetto della scuola di Aida la mappa è chiara: si vede il
serpentone del muro, lo squallore del campo, il checkpoint, la colonia
israeliana di Har Homa che isola Betlemme dal sud di Gerusalemme. «Il maggiore problema, qui, è il sovraffollamento: ormai si costruiscono le case una sopra l’altra» spiegano gli operatori di Unrwa,
l’agenzia dell’Onu per i profughi palestinesi, gli unici al mondo per i
quali lo status di rifugiato è ereditario. Con un budget di 1,5
miliardi di dollari per il 2014-2015, Unrwa provvede a 59 campi
palestinesi in Giordania, Libano, Siria, Cisgiordania e Striscia di
Gaza. Oltre 5 milioni di persone, di cui 800mila qui in Cisgiordania e
un milione e mezzo a Gaza. «Ad Ayda la disoccupazione è al 40% -,
proseguono gli operatori, – e la difficoltà di movimento data dai
checkpoint aggrava la situazione. La tensione è costante: qui si
registra un terzo degli scontri con i soldati israeliani di tutta la
Cisgiordania».
«Ciò che vedete è il risultato di un fallimento politico», afferma il
portavoce di Unrwa, Christopher Gunness, che ci ha raggiunti sul tetto
ventoso e parla rapido, con rabbia, senza l’equilibrismo delle mezze
misure tipico di tanti diplomatici e operatori umanitari che
s’incontrano da queste parti. «Tutti noi paghiamo le tasse, parte delle
quali va all’Onu per mitigare gli effetti di questa ingiustizia di
massa. Non sarebbe meglio che i governi affrontassero
l’occupazione, invece di dare fondi a Unrwa? Questo non è un conflitto, è
un’occupazione illegale di terra palestinese. Un esercito
contro gente che non ha niente. L’esistenza stessa di Unrwa testimonia
un fallimento dell’intero sistema Onu e del diritto internazionale».
Inoltrandoci
nei vicoli del campo, incrociamo pareti scrostate piene di scritte
“torneremo”. C’è qualche inno al partito islamista di Hamas e ricorre la figura di Handala, il
bimbo profugo sempre di spalle creato dal fumettista Naji al-Ali: fu
assassinato a Londra nel 1987, ancora non si conoscono i colpevoli,
e intanto Handala è diventato il volto invisibile di tutti i rifugiati
palestinesi.
Camminiamo tra rivoli d’acqua che perdono dalle tubature e
ci imbattiamo in Fatma e nelle sue amiche. Siedono al freddo in un
centro di Unrwa dove si insegna alle donne a lavorare come estetiste e
parrucchiere. Kifaya, cognata di Fatma, racconta di amare la sua vita
qui: «Tra rifugiati ci stiamo vicini, i rapporti sono solidali» dice.
Rawa, la vicina di casa, ha un cognato in prigione, un fratello ferito
dai soldati israeliani, ed è rimasta vedova a 23 anni con una bimba
piccola.Diari palestinesi è un progetto in collaborazione con l'Unione Europea, pubblicato da Io donna (Corriere della Sera).
Le sei puntate:
1. Nella valle del Giordano
2. Il sale della dignità
3. I bambini palestinesi ripuliscono Gerusalemme Est
4. Betlemme, le donne di Aida Camp
5. La gita a Nablus e il concetto di resilienza
6. Gerusalemme ed Hebron, i tour dell'occupazione (coming soon)
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