"HO PORTATO IL BRASILE ALLA SBARRA PER MASCHILISMO"

Maria da Penha è il simbolo di tutte le donne brasiliane che hanno saputo ribellarsi alla violenza. Grazie alla sua battaglia legale, il Brasile si è dotato di una legge che punisce gli abusi di genere. L'ho incontrata a casa sua, a Fortaleza.

 
La donna che ha fatto condannare il Brasile per maschilismo ha unghie rosse curate, trucco leggero e occhi miti che tradiscono la fatica della battaglia. Da oltre trent’anni le sue gambe sono bloccate su una sedia a rotelle eppure l’hanno portata molto lontano perché lei, Maria da Penha, è oggi il simbolo di tutte le donne brasiliane che hanno saputo ribellarsi alla violenza. Porta il suo nome la legge approvata il 7 agosto 2006, la prima nella storia del Brasile a condannare gli abusi di genere – sessuali, fisici, psicologici – e a istituire delle questure apposite nell’intero e sconfinato territorio brasiliano. Questa signora di 67 anni ha raggiunto l’obiettivo presentando alla Commissione Interamericana per i diritti umani il suo terribile caso personale: un marito che prima l’ha privata dell’uso delle gambe, e dopo quasi 20 anni di impunità ha avuto una condanna irrisoria.
Mentre in Brasile è in corso il dibattito su come perfezionare sia la legge sia le nuove, più severe misure introdotte a marzo dalla presidente Dilma Rousseff, incontro Maria da Penha nella sua casa al centro di Fortaleza, la capitale dello Stato del Ceará, nel Nordest. Mi offre succo di frutta, mostrandomi le foto delle tre figlie e parlandomi dell’Istituto a lei intitolato che promuove i diritti femminili nelle scuole. Mi regala il libro che ha scritto nel 1994, Sono sopravvissuta, posso raccontare, il caso editoriale che ha avviato il Brasile verso una legislazione moderna a sostegno delle donne. Ma il percorso di Maria – laureata in farmacologia, di famiglia borghese, sposata a un professore universitario – cominciava prima, una notte del 1983, quando il marito Marco Antonio Herredia le sparò alla schiena.

«Lui era colombiano: sposandomi, dopo un lungo iter era riuscito a ottenere la cittadinanza brasiliana. Non gli servivo più», spiega a voce bassa. «Quello era l’ultimo atto di una serie di violenze psicologiche contro di me e di abusi fisici sulle bambine. Da tempo pensavo alla separazione ma avevo paura: le cronache erano piene di uomini che uccidevano le mogli perché avevano osato chiedere il divorzio. Temevo per la mia vita e soprattutto per quella delle mie figlie».

Quando si è decisa a denunciarlo?
 Non dopo quella prima volta: aveva simulato una rapina in casa, sparandomi alle spalle mentre ero a letto e dando la colpa ai ladri. Gli avevo creduto. Ricordavo solo che, svegliandomi per i rumori, mi ero accorta di non riuscire a muovere le gambe. Mio marito raccontò ai vicini che erano entrati 4 uomini in casa, lui aveva il pigiama strappato per aver lottato: sembrava davvero traumatizzato. Dopo una lunga riabilitazione a Brasilia, tornai a casa e mi ritrovai segregata: chiunque volesse farmi visita doveva chiedergli l’autorizzazione, e intanto i vicini mi confidavano i loro sospetti sul fatto che non fosse stata una rapina.

Finché suo marito non ha tentato di nuovo di ucciderla. Mi portò in bagno. La doccia elettrica emetteva strane scariche: io rifiutai di entrare nella cabina e lui si arrabbiò in modo spropositato. Quando se ne andò di casa per qualche giorno, finalmente andai da un avvocato a chiedere la separazione. Mi rifugiai dai miei genitori con le bambine, lo denunciai e nel 1984 iniziò il processo: un tormento infinito, durante il quale lui era libero e io piena di paura. Non uscivo di casa, non parlavo con nessuno. È finito dietro le sbarre nel 2002, per soli due anni. Era inaccettabile. Ho fatto ricorso contro la sentenza presso la Commissione Interamericana per i diritti umani che, per la prima volta, ha accolto la denuncia di un delitto di violenza domestica. Condannando il Brasile ad adottare una legge in favore di tutte le donne vittime di soprusi. 

Il suo Paese registra ancora molti femminicidi: secondo l’Istituto di ricerca economica applicata, dal 2001 al 2011 le donne uccise sono state oltre 5mila l’anno, senza una significativa riduzione dopo il 2006. Signora da Penha, perché la sua legge non ha invertito la tendenza? I mutamenti ci sono stati, ma ci vuole più tempo, e soprattutto bisogna applicare la legge ovunque. Io vedo oggi più consapevolezza tra le donne: prima non esisteva nulla che le difendesse, l’aggressore non finiva in prigione e i processi duravano in eterno, come il mio. Ora invece la giustizia funziona, e nelle capitali dei 26 Stati brasiliani esistono le politiche pubbliche per le donne richieste dalla legge. Il problema è che il nostro è un Paese enorme, così in molti Comuni dell’interno queste misure non sono ancora arrivate e la cultura maschilista è diffusa anche tra i politici.

E la società, oggi, è più sensibile agli abusi di genere?
 Nelle piccole comunità dove l’aggressore è stato punito dalla legge, tutti diventano più coscienti. Le donne conoscono meglio i propri diritti, ma purtroppo questo non significa che denuncino più spesso: resiste la paura, la cultura del silenzio, soprattutto nelle aree rurali dove tuttora non abbiamo statistiche precise sul fenomeno. Nella città di Fortaleza, invece, la questura per le donne riceve più denunce di tutte le altre questure messe insieme.

Perché, secondo lei, nel suo Paese è così diffusa la violenza contro le donne? 
Per il maschilismo che impregna la società, e per l’impunità che ha sempre dominato. C’è poi una questione di educazione: molti uomini hanno vissuto situazioni di violenza in famiglia e per loro è quella la normalità, che li porta a riprodurre quegli stessi modelli di relazione.

Tornando alla sua vicenda personale, qual è stato il momento psicologicamente più duro? 
Otto anni dopo il tentato omicidio, mio marito fu portato davanti al giudice e condannato, ma tornò libero all’istante pagando la cauzione. Un evento che mi lasciò attonita e disperata. Ho ricominciato a vivere solo nel ’94, quando ho scritto il mio libro buttando fuori le amarezze. È stato grazie al libro che siamo arrivati alla Corte Interamericana: un deputato del Ceará lo aveva letto, e ha promosso l’azione in sede internazionale.

Cosa prova, oggi, per il suo ex marito?

Non mi piace la parola perdono, e non mi piace ricordare le violenze di quell’uomo. Sono contenta di avere trasformato la mia sofferenza in una potenzialità per dare sostegno ad altre vittime.

Quale messaggio rivolge alle donne che ancora subiscono in silenzio?
 Le invito a unirsi nei loro contesti locali e a combattere per pretendere politiche pubbliche in loro favore. E le incoraggio a denunciare per liberarsi per sempre dalla paura.



Maria da Penha è una delle donne ritratte dal fotografo Fabio Lovino per il progetto Mothers. L’amore che cambia il mondo: una mostra fotografica promossa dalla ong WeWorld, oltre a un libro fotografico per il quale ho firmato tre reportage da Benin, Brasile e Italia.

Per richiedere mostra e libro: weworld.it.

 

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