Scutari, scatti umani d'Albania
Il loro
incontro “ufficiale”
risale a quattro anni fa, in un edificio umido tra la chiesa ortodossa e la
moschea Ebu Bekir. La neve sciolta gocciola dal soffitto, disturbando la poesia
di un momento che segnerà la fortuna di entrambi i protagonisti di questa saga
italo-albanese. E forse, tra non molto, anche il destino culturale del luogo in
cui è ambientata: Scutari, a nord, sul crinale tra l’Albania più
tradizionalista e quella che non ha mai smesso di guardare all’Europa. Una
cittadina con poco più di 100mila abitanti che, il 9 maggio, ha inaugurato un
museo della fotografia già connesso con le più prestigiose gallerie mondiali del
settore, dal Foam di Amsterdam all’Icp di New York.
Il primo
personaggio di questa storia si chiama Pietro Marubbi ed è un giovane
piacentino con simpatie garibaldine. A metà Ottocento parte dall’Italia in
subbuglio e, dopo un avventuroso viaggio nell’Adriatico, approda a Scutari, che
è ancora un’ideale enclave veneziana dentro l’impero ottomano.
In un clima intellettuale dinamico e tollerante, nel 1856 il transfuga
ventiduenne apre uno studio fotografico che, a soli 17 anni dall’invenzione del
dagherrotipo, è il primo di tutti i Balcani. Lui mette radici, cambia nome in
Pjetër Marubi, cura i
progetti architettonici del consolato italiano e della cattedrale cattolica di
Santo Stefano, realizza ritratti per privati e reportage per riviste come L’illustrazione italiana. Le tre
generazioni di fotografi allevati nel suo atelier, attivi fino al crollo del
comunismo, consegneranno alla storia un’eccezionale documentazione iconografica
di questa terra al crocevia tra Oriente e Occidente.
Il secondo
personaggio, Luçjan
Bedeni, nella “Firenze
dei Balcani” nasce in tutt’altra epoca, nel 1987. Dopo i premi internazionali
per le sue opere tra pittura e video e le residenze d’artista negli Stati
Uniti, torna a Scutari, controcorrente in una nazione di diaspora ormai
cronica. Mentre insegna arte alla scuola dei Gesuiti, pensa a cosa inventarsi
per riaccendere le luci internazionali sulla sua città, adombrate dal comunismo, dal caos
degli anni Novanta e dall’emorragia migratoria. Finché, nel 2012, ottiene dal ministero
dalla Cultura la direzione della Fototeca Marubi, che era stata forzatamente
ceduta nel 1970 al regime di Enver Hoxha e nella nuova, agitata Albania
post-comunista aveva soffocato nella polvere quel tesoro di stampe, negativi e
macchine a soffietto.
Luçjan Bedeni |
“Il
primo giorno di lavoro mi sono messo i guanti per salvare i materiali
dall’umidità e
ho persino pulito il bagno” sorride oggi il giovane Bedeni ricevendoci nel
nuovo museo cui è riuscito a dare forma in Rruga Kolë Idromeno, nel centro pedonale della
città. Due piani di
stampe in bianco e nero che narrano i paesaggi e la società di Scutari attraverso 131 anni:
dalla prima foto nota di Pietro Marubbi, un ritratto del combattente
anti-ottomano Hamza Kazazi, fino al 1989 con gli scatti su pellicola di Hilmi
Mustafa, l’ultimo della scuola del maestro piacentino. C’è Shan Pici, che tra
le due guerre mondiali fissa i monti e i tre fiumi di Scutari in immagini che
sembrano presagire il linguaggio di Sebastião Salgado. Il figlio adottivo di
Marubi, Kel, che si perfeziona a Trieste nello studio Sebastianutti ed esegue
intensi ritratti familiari. Kolë Idromeno, pittore e architetto prestato anche alla
fotografia. E Gegë Marubi,
figlio di Kel, formatosi dai fratelli Lumière a Parigi e pioniere, in Albania,
della tecnica a infrarossi. “Un archivio inestimabile, lasciato a se stesso per oltre
quarant’anni” sottolinea Bedeni. “Mezzo milione di negativi su vetro e su pellicola, stampe
antiche originali, i diari degli artisti, la loro corrispondenza e circa 300
macchine fotografiche che attraversano tutte le fasi tecniche di quest’arte.
Scutari è la capitale balcanica della fotografia: doveva avere il suo museo”.
Al pian
terreno, la mostra inaugurale è dedicata ai soggetti femminili di una dinastia
tutta maschile: volti di montanare in abiti tradizionali, affascinanti quanto
le dame borghesi e le donne importanti come Shaqe Çoba, prima intellettuale
nella Scutari d’inizio Novecento, Shote Galica, eroina della guerriglia contro
i serbi, fino alla scrittrice inglese Edith Durham che consacrò il nord dell’Albania
a fonte d’ispirazione.
Al primo piano è invece esposta una selezione dei 12 fotografi cresciuti allo
Studio Marubi, con materiali d’epoca e una ricostruzione del fondale disegnato
da Pietro per mettere in posa i suoi clienti. Mentre tre postazioni video
mandano film documentari sulla Scutari che fu.
Con l’azzardo
del neofita, Luçjan
Bedeni ha bussato alle porte delle ambasciate, del Fondo di sviluppo
americano-albanese, di mecenati svizzeri e tedeschi, raccogliendo in tempi
record un milione e 200mila euro per aprire il museo. E grazie all’agenzia
dell’Onu Undp e alla Regione Friuli Venezia Giulia, è in corso la
digitalizzazione dell’intero archivio che confluirà in una galleria virtuale, fruibile
su internet da ogni parte del mondo. “Questa è un’eredità non solo albanese, bensì europea”
dice. “La
nostra storia è profondamente legata all’Europa, al cristianesimo, e io spero
di veder entrare al museo sempre più abitanti di Scutari, prima quasi ignari
dell’esistenza di un simile patrimonio”.
Nel futuro, oltre a scambi di mostre
con il Foam di Amsterdam, l’Icp di New York e il Jeu de Paume a Parigi, Bedeni
progetta di fare della sua galleria il fulcro di sperimentazioni d’arte
contemporanea, convinto che “un museo può cambiare una città. Il mio sogno” confida “è
trasformare un capannone industriale di periferia in un polo simile al MoMa Ps1
di Queens, a New York, dove coltivare i talenti dei giovani”. A fine anno,
intanto, l’enfant prodige balcanico pubblicherà un libro su Pietro Marubbi, svelando
episodi della sua biografia, umana e artistica, finora ignoti. “Vorrei presentarlo anche a Piacenza,
dove temo che in pochi conoscano questo loro concittadino autore di un capitolo
fondamentale nella storia della fotografia”.
da Avvenire, 15 luglio 2016
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