LINA E LE LIBERE LOTTATRICI DI AMMAN
Guantoni da boxe,
sudore, flessioni, sguardi vigili. Calci da riprovare all’infinito per
conquistare l’altezza e l’intensità giuste, dove la potenza non sbilanci il
corpo. Gesti asciutti e calibrati per disarmare l’aggressore immaginario che
nasconda un coltello. Pugni da assestare alla perfezione, perché quando
capiterà davvero, magari lungo una strada buia, il panico dovrà trasformarsi
all’istante in tecnica e sangue freddo.
Siamo in una palestra di
Roma e queste 30 donne non sono concentrate su una semplice lezione di
combattimento. Ad arringarle, autorevole e scattante, è una trentaduenne che da
Amman, in Giordania, è venuta in Italia a mostrare l’idea tanto semplice quanto
visionaria che l’ha resa un modello di emancipazione femminile.
Lei si chiama Lina
Khalifeh ed è cintura nera nell’arte marziale coreana del Taekwondo: «La
pratico fin da bambina» ci dice in una pausa dagli allenamenti, «è uno sport
molto popolare in Giordania, ma solo fra gli uomini. Un nostro cugino gestiva
una palestra: è stato un caso che i miei genitori mi ci abbiano portata per
tenere a freno la mia vivacità». Dopo gli studi tra Stati Uniti, Francia e
Giordania, tuttavia, il suo destino era in un ufficio dell’azienda di famiglia.
Finché un giorno di 7 anni fa Lina ha incrociato nei corridoi dell’università,
per l’ennesima volta, gli occhi pesti e gli zigomi tumefatti dell’amica Sarah,
vessata da un fratello manesco. «Le ripetevo: “Metti fine a tutto questo! Gli
uomini ci considerano creature sottomesse, vittime per definizione, ma basta un
gesto per indurli a rispettarci”. Così cominciai ad allenarla nella mia
cantina. I miei genitori storcevano il naso ma pensavano che quella mia idea
folle sarebbe svanita in fretta. Invece, nel 2012, aprii la mia palestra».
Il centro SheFighter,
fondato da Lina Khalifeh nel quartiere Khalda ad Amman, è il primo in Medio
Oriente a offrire corsi di auto-difesa femminile. L’ingresso è riservato alle
donne, e non solo perché possano abbigliarsi come pare a loro, senza veli
islamici e pudori sociali. «SheFighter è un luogo dove condividere la propria
storia, confidare le umiliazioni subìte, lavorare sulle nostre debolezze e i
punti di forza. La mia tecnica combina il Taekwondo, un’arte straordinaria che
insegna disciplina e rispetto per sé e per gli altri, con boxe, kick boxing e
Kung fu, ed è soprattutto un percorso di irrobustimento interiore e di
autostima. Quando si sentono forti e stabili fisicamente, capaci di reagire
alle aggressioni, le nostre donne danno un calcio al vittimismo, sono in grado di
prendere decisioni importanti per la loro vita, come denunciare un marito
violento, e di rivendicare un ruolo nella collettività».
Oggi SheFighter allena
120 donne al mese nella sola Amman, e migliaia nel Paese. «Teniamo anche classi
gratuite nei quartieri più poveri e con le rifugiate siriane» aggiunge Lina,
«perché il nostro è innanzitutto un messaggio sociale».
L’emancipazione
femminile attraverso lo sport, affinché le donne imparino come contrastare la
violenza, fuori e dentro casa: è questo il suo obiettivo, controcorrente e
quasi temerario, nella società giordana che - per quanto avanti nella parità,
se confrontata ad altri Paesi mediorientali - resta profondamente patriarcale.
Nel 2012 il sociologo Diab M. Al-Badayneh ha intervistato quasi duemila donne,
e il 98 per cento ammetteva di aver patito almeno un episodio d’abuso. La
ricerca suggeriva quanto i soprusi subìti plasmassero al ribasso la personalità
femminile, rendendola passiva secondo le aspettative della società: il 93 per
cento del campione, per esempio, riteneva che la moglie debba sempre obbedire
al marito.
Ecco perché, dentro i
confini del suo Paese, il cammino di Lina Khalifeh resta in salita: «Il tema
della violenza domestica è tabù» spiega, «se ne nega persino l’esistenza, e
molti mi accusano d’insegnare alle donne a diventare violente. Un marito mi ha
persino denunciata perché la moglie, dopo anni di maltrattamenti, ha finalmente
reagito. Però in tribunale ho vinto io». Alla fine, a Lina interessa raccontare
le vittorie delle sue allieve, e ne ha un catalogo sterminato. Come la giovane
che ha sventato un tentativo di stupro dentro un ascensore sferrando un calcio
all’aggressore, inseguendolo per strada e facendolo arrestare. O la ragazza che
l’abuso sessuale l’aveva subìto e, per la madre, portarla a SheFighter era
l’ultima spiaggia per sottrarla alla catatonia: «Ce l’ha fatta» ricorda Lina,
«ha ritrovato la fiducia in sé ed è diventata lei stessa allenatrice».
Se la sua Giordania
continua a guardarla come un’aliena («Il governo non ci ostacola ma ci ignora.
Andiamo avanti con il sostegno di organizzazioni internazionali»), all’estero
piovono riconoscimenti. Nel 2015, l’allora presidente americano Obama lodava il
suo impegno. Da imprenditrice sociale ha vinto premi a Dubai e all’Onu di Ginevra.
L’attrice Emma Watson l’ha chiamata per farsi allenare personalmente a lei.
«Ora siamo pronte a esportare SheFighter in tutto il mondo» confida. «Ci siamo
già riuscite in Turchia, in Vietnam, in Brasile, e presto anche in Italia
grazie all’associazione “Un ponte per…”. Perché la violenza di genere non ha
nazionalità».
da Avvenire, 24 marzo 2017
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