Quella pioggia calda che veniva da Chernobyl
La palestra della scuola di Kirov, nella Bielorussia meridionale. |
Domani sarà il 31esimo anniversario dell'incidente nucleare di Chernobyl. Un brano dal mio libro Giardino atomico (Infinito Edizioni).
Nella provincia di Narovlja, a ridosso della
frontiera ucraina, il villaggio di Kirov registra una contaminazione di trentuno curie per chilometro
quadrato. Eppure non c’è traccia di controlli, né ombra di sbarre o posti di blocco.
L’ufficio
di igiene statale ha diradato i controlli sul latte e i medici del governo non
passano da queste parti da almeno un anno, da quando hanno rilevato negli
abitanti di Kirov la quantità di millisievert, l’unità di misura
dell’energia radioattiva assorbita da organi e tessuti umani. Tutti i 312
abitanti, compresi i novanta bambini, avevano in corpo ben più di un millisievert, la dose massima annuale ammessa dalla
normativa internazionale.
«Forse non aspettano altro che moriamo tutti», abbozza
un sorriso livido Evgenia Partiko, la direttrice della scuola di Kirov, mentre
con lentezza percorriamo corridoi male illuminati e costellati di altarini che
commemorano la tragedia di Chernobyl e, insieme, la seconda guerra mondiale.
Allora morì un quarto del popolo bielorusso; dopo Chernobyl, un quinto di loro
abita lungo i bordi porosi della vita.
«La mattina del 26 aprile 1986 faceva caldo,
eravamo tutti fuori: io, i miei genitori, i miei fratelli, mio marito. Stavamo
costruendo un tavolo di legno per mangiare all’aperto. – ricorda la donna – All’improvviso
è arrivata una nuvola scura e s’è messo a piovere: una pioggia calda, a grandi
gocce. “Guardate com’è bella!”, diceva mio padre, e tutti stavamo lì a
prendercela addosso, divertiti da quella stranezza atmosferica. Sarà durata
venti minuti, poi è tornato il sole e ricordo che io sentivo troppo caldo, non
stavo bene, saliva calore dalla terra. A quell’epoca tanti giovani di Kirov si
erano trasferiti a Pripyat, la città accanto alla centrale atomica, per lavorare
come cuochi, spazzini, camerieri: c’era tanto bisogno di braccia, laggiù, e tutti qui avevano
bisogno di lavorare. Subito dopo il 26 aprile, al villaggio è tornata una donna
con i suoi figli, portando da Pripyat dei bellissimi tappeti. Li aveva appesi agli
stendibiancheria nel suo giardino, io ci passavo davanti con la bicicletta e
pensavo: “Che bei tappeti ha questa signora, si vede che a Pripyat la gente
diventa ricca”. Si è ammalata di lì a poco, è morta nove anni fa ma era come se
fosse morta da tanto tempo. La gente che arrivava da Pripyat diceva che c’era
stato un incendio alla centrale, che stavano evacuando la città, ma nessuno
sapeva niente di preciso. Il primo maggio ancora non era arrivata
l’informazione ufficiale, ma avevano già cominciato a darci le pastiglie per la
tiroide contro lo Iodio 131. Il 5 maggio hanno iniziato a evacuare i bambini, e
noi maestre insieme a loro. C’era una gran confusione, arrivavano i pullman e
ci caricavano in fretta: alla fine ci hanno portati a Korma, vicino a Dobruš,
in una zona contaminatissima, ma allora nessuno lo sapeva. Abbiamo vissuto un
mese e mezzo in una palestra, accampati come profughi a dormire per terra.
Quando hanno saputo che le radiazioni erano alte ci hanno trasferiti a Grodno,
al nord, e anche lì avevamo ammassato i letti nelle scuole. I bambini sono
tornati a casa in piccoli gruppi, e io ho rivisto Kirov solo il 15 agosto, con
gli ultimi alunni che rientravano».
«Al villaggio ho incontrato un vecchio
compagno di scuola, si chiamava Ivan Aristov: da tempo si era trasferito a
Minsk per lavorare nell’esercito, per questo era stato chiamato come
liquidatore alla centrale di Chernobyl. Mi ha raccontato che lui e gli altri
uomini indossavano le tute protettive e avevano solo pochi minuti per correre
sul tetto del reattore, buttare dei pezzi di cemento sul fuoco e tornare
indietro. Dicevano loro: “Se impiegate più di cinque minuti, ci sarà pericolo
per la vostra salute. Dovete correre!”. Ivan era così allegro, proprio una
brava persona. È morto tre anni dopo l’avaria, nel 1989: era diventato tutto
calvo, la pelle gli si staccava a grossi lembi, le ossa si fratturavano come
quelle di un vecchio e lui cadeva in continuazione. Quando gli hanno detto che
la sua tomba sarebbe stata non lontana dal negozio di alimentari, ha sorriso:
“Sono contento, così vi guarderò tutti quando andrete a fare la spesa”».
Ma allora perché restate qui, Evgenia? Insisto. Non
riesco ad accettare che l’attaccamento a una terra tanto cancerosa non abbia
spiegazioni razionali.
Lei tenta, si sforza di rispondere, s’interrompe,
riprende da capo: «Siamo un popolo contadino. La dignità è vivere dei prodotti
della nostra terra. Non possiamo abbandonarla. Che ne sarebbe di noi?». E a me
sembra di rileggere le parole di un’insegnante intervistata dalla scrittrice bielorussa
Svjatlana Aleksievič, futuro premio Nobel, nel suo meraviglioso e tremendo Preghiera
per Chernobyl, quando dice: «Rinunciare ai cetrioli del proprio orto era
considerato un fatto più grave di Chernobyl».
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