NON DIMENTICATE IL MIO AFGHANISTAN
I
suoi occhi si velano di lacrime trattenute quando parla del figlio di 4 anni,
affidato al marito e alla nonna in un punto dell’Afghanistan che non si può
rivelare. “Una volta al mese vado da lui, viaggiando nascosta sotto un burqa: è
il pensiero del suo futuro a darmi forza”. Malalai Joya è stata definita dalla
Bbc “la donna più coraggiosa dell’Afghanistan”, e paragonata da un gruppo di
premi Nobel per la Pace all’icona di non violenza Aung San Suu Kyi. Attivista
per i diritti civili, 39 anni, vive in clandestinità dal 2007, quando fu
espulsa dal Parlamento afghano - era la più giovane deputata mai eletta nel
Paese - per aver accusato di crimini contro l’umanità molti suoi colleghi di
scranno. Già nel 2003, delegata alla Loya Jirga, l’assemblea per approvare la
Costituzione, questa donna minuta e tenace denunciava davanti alle telecamere
la scandalosa presenza di signori della guerra. Diventava così un simbolo per
le forze progressiste in una terra stremata da conflitti infiniti, droga,
povertà, attacchi terroristici - il più sanguinoso il 31 maggio nel cuore di
Kabul, rivendicato da Isis, con 90 morti e centinaia di feriti -, violazione
sistematica dei diritti umani. Malalai Joya riceve continue minacce di morte:
“Hanno cercato di uccidermi 7 volte” ci racconta durante un viaggio in Italia,
ospite dell’associazione Cospe e della rete “In difesa Di – Per idiritti umani e chi li difende”, che riunisce 30 organizzazioni della società civile.
“Sono qui per chiedere alla comunità internazionale: non dimenticate
l’Afghanistan”.
Chi
vuole metterla a tacere?
I
fondamentalisti al potere. Il regime ha paura della società civile che si mobilita,
vuole mantenere la gente nell’ignoranza mentre io mi batto per l’istruzione,
chiave di ogni progresso, e ho denunciato il furto sugli investimenti stranieri
per le scuole. E poi i talebani nelle aree rurali. Nella mia provincia, Farah,
hanno persino un bazar dove smerciano droga e armi alla luce del sole. Di
recente, mentre andavo a un incontro segreto in un villaggio, una bomba ha
distrutto il ponte su cui stavo per passare.
Lei
non risparmia critiche nemmeno agli Stati Uniti e alla comunità internazionale.
In
Afghanistan, dal 2001, i governi occidentali appoggiano un regime fantoccio e
mafioso. La lotta al terrorismo è una bugia di Usa e Nato per continuare le
loro guerre e testare armi sulla nostra terra: dalle bombe a grappolo alla
“madre di tutte le bombe”, che ha provocato malformazioni nei bambini nati in
quel periodo. So che l’uscita delle truppe straniere non porterà la pace, non
sono stupida, ma almeno il popolo afghano si libererebbe di uno dei suoi
numerosi nemici. Basti pensare che la produzione di droga non è mai stata tanto
fiorente come oggi.
Come
riesce a svolgere il suo attivismo vivendo in clandestinità?
Cambio
spesso alloggio e telefoni e mi nascondo sotto un burqa, che è un simbolo di
oppressione femminile ma a me dà libertà di movimento. Incontro le forze
progressiste che organizzano proteste e conferenze, e la gente comune che mi
supporta, ma non posso apparire pubblicamente. Da ragazza, quando vivevo nei
campi profughi in Pakistan, insegnavo alle donne a leggere e scrivere: ogni
tanto lo faccio ancora, poiché le donne sono le più vulnerabili nella nostra
società.
Dopo
la caduta dei talebani la condizione femminile non è migliorata?
No:
per i fondamentalisti al potere, il posto di una donna è la casa o la tomba.
Nella provincia di Herat, nell’ultimo anno, 700 donne hanno tentato il suicidio
perché non tolleravano più le violenze domestiche: 33 sono morte. Due anni fa a
Kabul, una 27enne di nome Farkhunda è stata accusata di
aver bruciato un Corano e linciata sotto gli occhi della polizia e delle truppe
straniere. E Shakila, 16 anni, stuprata e uccisa da un membro del Consiglio
provinciale di Bamyan. Ho aiutato i familiari a denunciare, ma il fratello
dell’assassino era un parlamentare, che ha corrotto il tribunale facendolo
assolvere. Una tragedia che racchiude tutti i mali dell’Afghanistan:
ingiustizia, corruzione, povertà, violazione dei diritti umani, violenza di
genere.
Eppure
avete quota rosa in Parlamento e un ministero per i Diritti delle donne. Solo
un’operazione di maquillage?
Esattamente.
Le donne deputate sono fantocci dei partiti e non muovono un dito per
l’emancipazione femminile. Alcune mi hanno minacciata apertamente.
Qual
è l’obiettivo finale della sua protesta?
Sono
tanti. La consapevolezza politica della popolazione. L’istruzione, perché un
popolo analfabeta non può rivendicare diritti. Sto anche costruendo scuole in
zone rurali: voglio vedere in ogni angolo del Paese scuole, computer, corsi di
tecnologia. Voglio che le nostre figlie non abbiano più paura di essere rapite
e stuprate. Voglio libertà, cibo, pace. E soprattutto giustizia: sto
raccogliendo documenti sui signori della guerra per portarli alla Corte
dell’Aja. Gulbuddin Hekmatyar, per esempio: il “macellaio di Kabul”, che
dal 2001 guidava una sanguinaria fazione ribelle, fino a ieri sulla lista nera
dell’Onu e latitante, a inizio maggio è stato accolto dal presidente come
mediatore di pace. Sono scempi sui quali il nostro popolo piange ogni giorno.
In
mezzo a tanto dolore, c’è stato un momento felice per lei?
Due
sorelline volevano studiare, ma il padre si opponeva. Mi hanno chiesto di
convincerlo e lui s’è fidato di me mandando le figlie a scuola. È stato un
giorno speciale. Come quando riesco a dare una piccola speranza ai parenti di
ragazzi uccisi, che non hanno neanche un cadavere su cui piangere, eppure mi
abbracciano dicendomi: “Vai avanti”.
Questa intervista è stata realizzata a Milano il 17 maggio 2017 e pubblicata da Avvenire il 15 giugno 2017.
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