SUDAFRICA, LE CONTRADDIZIONI DEI NUOVI BLACK DIAMONDS

Foto di Leon Neal

Adesso che la stagione calda sta per affacciarsi alla sua latitudine australe, la stilista Thandeka Khoza non vede l’ora d’assaporare cocktail e tramonti dalle terrazze dei ristoranti più esclusivi di Sandton, San Deck e Sands su tutti. Il distretto di Johannesburg noto come la Manhattan sudafricana, o il miglio quadrato più ricco del continente, resta a maggioranza bianca nonostante l’esodo post-apartheid. Ma ormai per i giovani neri come Thandeka s’è sgretolata ogni barriera dentro la metropoli prosperata sulla vergogna della segregazione razziale. “Finalmente usciti dal nostro bozzolo, oggi occupiamo uno spazio in cui siamo liberi di muoverci e sperimentare” dice la 30enne, ospite fissa alle Johannesburg Fashion Weeks, una carriera sapientemente costruita sui like di Instagram e sul motto: “Non posso vivere senza telefono, rossetto e power bank”.
Delle vibrazioni contemporanee di Jozi (così i locali chiamano questa città da 8 milioni d’abitanti), Kutloano Nhlapo in arte Kuxx ama invece “la fame di successo che si respira, e un nuovo individualismo che per noi giovani significa non avere più paura d’esprimere ciò che siamo”. Kuxx ha 29 anni, è un dj richiestissimo ai party, conduce due programmi alla radio Yfm e s’è appena esibito a Ibiza con colleghi internazionali. Anche se oggi guida un’auto costosa e ha lasciato la sua township di Daveyton, non dimentica l’adolescenza di stenti dopo il divorzio dei genitori, quando rinunciò a studiare per sostenere la famiglia.
Nel Paese da sempre grande e sofferto laboratorio multirazziale, dove gli oltre 55 milioni d’abitanti hanno un’età media di 25 anni e sono all’80% neri e al 9% bianchi (accanto a minoranze meticce e asiatiche), i giovani adulti come Thandeka e Kuxx sanno di rappresentare il futuro di una Rainbow Nation in bilico fra troppi estremi: Africa e Occidente, democrazia e corruzione politica, economia rampante e timori di recessione, prove d’uguaglianza e antinomie sociali irrisolte. Sono la prima generazione di neri sudafricani nati liberi dopo l’apartheid. Ma, soprattutto, sono i figli della middle class di colore che nell’ultimo decennio è triplicata e oggi raggiunge il 55% di un ceto agiato di 9 milioni di persone, fondamentali per i consumi del Paese.
Spinta dalla crescita economica fino al 2009 (ora il Pil è invece in calo), e dalla legge Black Economic Empowerment varata nel 2003 per colmare lo storico svantaggio dei non bianchi e dare l’ultimo colpo di spugna sul razzismo di Stato, la borghesia di colore lavora per lo più nel pubblico e vive per metà nel Gauteng, la provincia di Johannesburg. I suoi rampolli 20-30enni, altrettanto ambiziosi e concreti ma più patinati d’eleganza e apparenze, a Jozi oggi spendono in abiti firmati e, al volante di Bmw e Mercedes, inseguono fama e successo, più che stabilità. I loro idoli sono il rapper OkMalumKoolKat e le star della Tv, nonché icone fashion, come Nomuzi Mabena e Luthando Shosha. I luoghi di culto, i lounge bar di Rosebank e Sandton, il mercato bio del weekend a Braamfontein e, oltre il Mandela Bridge intessuto di cavi d’acciaio, il Maboneng Precinct: un complesso di ex magazzini industriali degradato dopo la fuga dei bianchi dal centro. Rimesso a nuovo dal giovane imprenditore Jonathan Liebmann, oggi è un hub culturale e ludico di gallerie d’arte, giardini, cinema, e l’hotel di design 12 Decades con un bar sul tetto che pare un angolo di Chelsea a New York.
I giovani black diamonds non aspirano alla sguaiataggine di quelli dell’immediato post-apartheid, come il miliardario galeotto Kenny Kunene che alle sue feste usava servire sushi sui corpi di modelle in lingerie. Quest’emergente borghesia nera, mediamente istruita, insegue piuttosto il modello del do it yourself, sfruttando i social network per arrivare. Come Thsego Manche, 28 anni e oltre 170mila follower su Instagram tra profilo personale e quello del suo marchio di moda LaManche. Tutta pose perfette e look attillato su un fisico giunonico orgogliosamente africano, Thsego è la classica erede della prima middle class nera: padre broker finanziario e madre imprenditrice edile, lei disegna collezioni, importa tessuti dall’Asia, veste celebrities. “Noi imprenditori neri” sostiene “dobbiamo prendere esempio da ciò che i bianchi hanno fatto perfettamente per generazioni: business e cultura del benessere. Per questo loro reggono ancora le redini del mercato. Io vivo il mio lavoro come un impegno di lungo periodo, per porre le basi dell’avvenire dei miei figli e nipoti”.
La black élite in ascesa nella “città dell’oro” s’inventa start-up, fa rete in luoghi pensati per lo shopping e per il co-working come il 44 Stanley a Millpark. Per alcuni osservatori, tuttavia, i suoi piedi poggiano su terreni friabili. L’erosione dell’agiatezza dei loro padri, innanzitutto, analizzata da Roger Southall nel libro del 2016 The New Black Middle Class in South Africa, già un classico sul tema. Per il sociologo dell’università di Witwatersrand, le vulnerabilità stanno nel cordone ombelicale che avvinghia la borghesia nera all’Anc, il partito di governo in calo di consensi, oltre che nei crescenti debiti per sostenere assicurazioni mediche private, ottime scuole per i figli e spese di sicurezza in una nazione ad alti tassi criminali. E poi ci sono i postumi dell’antica febbre: il razzismo innominabile ma tuttora presente, pur con qualche mutazione genetica. Nell’ultimo Reconciliation Barometer, un sondaggio annuale dell’Istituto per la Giustizia e la Riconciliazione, si legge che il 61,4% dei sudafricani ritiene che i rapporti inter-razziali siano rimasti uguali al ’94, l’anno della fine dell’apartheid, o addirittura peggiorati. E il 67,3% non si fida dei concittadini di pelle diversa. “Negli anni ’90 ho frequentato una delle prime scuole multi-razziali” racconta il dj Kruxx “e non è stato facile. Nonostante i grandi sforzi del Sudafrica in questi 23 anni di libertà, il razzismo resta uno stato mentale. Ora però avanza una forma diversa di discriminazione: il classismo. Fra gli stessi neri si distingue fra chi ha soldi e chi no: è questa la sfida per il nostro futuro”.
Mentre la minoranza bianca ha ancora in mano le maggiori industrie del Paese, e fra i primi 10 miliardari sudafricani nella classifica di Forbes compare un solo nero (il magnate delle miniere Patrice Tlhopane Motsepe, al sesto posto), è all’interno della comunità black che esplodono le disparità più gravi. L’indice Gini della Banca Mondiale, che boccia il Sudafrica come il Paese più iniquo al mondo, dice anche che il divario nella distribuzione del reddito è più ampio fra i neri. I sudafricani in estrema povertà sono aumentati da 11 milioni nel 2011 a 13,8 nel 2015, e i più vulnerabili sono sempre i neri delle township, gli ex ghetti. Il tasso nazionale di disoccupazione quest’anno è aumentato al 27,7%, il dato peggiore dal 2003, ma fra i neri s’impenna fino al 31,4%, con picchi nella popolazione giovanile. E se la middle class nera spesso disprezza i neri indigenti, questi a loro volta protestano contro gli unici che ormai stanno peggio di loro, gli immigrati da altri Stati africani, in una spirale di barriere sociali senza fine. Perché a fronte di una Soweto - un tempo luogo simbolo dell’apartheid - ridisegnata da ville borghesi, dal centro commerciale Maponya Mall, da wine bar e un’atmosfera frizzante che soppianta la rabbia delle lotte razziali, township come Alexandra, nel nord di Johannesburg, fanno ancora paura.
La storia di Lethabo Mokoena, 25 anni, sembra il perfetto anello di congiunzione tra gli (in fondo) spensierati black diamonds dei party in terrazza e la gioventù arrabbiata degli ex ghetti. La sua idea di business, pulire scarpe da tennis, in soli 2 anni ha agganciato ottimi sponsor, e oggi la sua impresa Walk Fresh ha 7 punti di ritiro e consegna fra Johannesburg e Soweto e un negozio a Daveyton, il suo disagiato sobborgo. “Voglio riscrivere la narrativa delle township” spiega Lethabo. “Voglio rendere internazionale il mio marchio per dare ai giovanissimi delle periferie un senso di speranza e di comunità. Chi dice che l’apartheid è un ricordo lontano, mente: siamo uguali solo sulla carta, ma diversi nel benessere e nell’accesso all’istruzione. Da giovane nero sudafricano, io non posso guidare in un quartiere a maggioranza bianca per ritirare scarpe senza che un furgone della vigilanza mi sorvegli, o senza che un bianco si accosti per chiedermi cosa diavolo stia facendo lì. Il razzismo, io lo sperimento ogni giorno della mia vita”.

E della politica, cosa pensa questa generazione? “Come nei Paesi occidentali, anche qui c’è una fuga dei giovani dalla politica” nota l’esperto di Sudafrica Rocco Ronza, sociologo e politologo all’Università Cattolica di Milano. Sebbene i genitori abbiano dovuto lottare per il diritto al voto, loro invece “paiono poco motivati ad andare alle urne. Inoltre i giovani nati dopo la fine dell’apartheid non hanno presenza in politica: non esistono, in Sudafrica, leader sotto i 30 anni”. Intanto l’Anc, il partito di Nelson Mandela al governo dal ’94, è crollato alle elezioni amministrative del 2016, cedendo città-chiave come Johannesburg e la capitale Pretoria al partito bianco d’opposizione Da. L’ormai impresentabile presidente Jacob Zuma, coinvolto in casi di corruzione e condannato per peculato, a dicembre dovrebbe lasciare lo scettro dell’Anc ad altri (in lista c’è pure la sua ex moglie), “nella speranza che emerga, nel partito, una personalità capace di gestire la complessità del Paese come ha fatto Zuma finora, seppure in modo controverso” osserva Ronza. Il prossimo capo dell’Anc sarà quasi certamente il nuovo presidente del Sudafrica, alle elezioni del 2019. E chissà se e come voteranno i giovani diamanti neri: con riconoscenza a un partito che ha fatto la fortuna delle loro famiglie e quindi la loro, oppure con qualche azzardo verso l’ignoto.

Da D-la Repubblica, 21 ottobre 2017

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