MUTILAZIONI GENITALI: LA BATTAGLIA DI MARIAME
Mariame Sakho (foto ActionAid). |
Nella
moschea di via Quaranta a Milano, di fronte a donne che la incalzano con mille
domande e curiosità, una signora africana vestita d’arancio sceglie parole
semplici e dirette per affrontare il problema che ha segnato profondamente la
sua vita: la mutilazione genitale femminile. “Porta solo danni, e non è prescritta
dal Corano” scandisce. Lei si chiama Mariame Sakho, ha 51 anni ed è una deputata
senegalese, impegnata affinché il suo Paese cancelli questa tradizione di
sangue che umilia le donne condannandole alla sofferenza. Ha 51 anni e da tempo
è un’attivista della Ong ActionAid per promuovere i diritti femminili.
Figura
di spicco della sua comunità di Bakel, nella regione senegalese di Tambacounda,
Mariame Sakho conosce alla perfezione il tema della mutilazione genitale
femminile: fino a 19 anni fa, le sue stesse mani hanno attuato il “taglio” rituale
su migliaia di bambine. “Ho iniziato da ragazza, aiutando mia nonna che
svolgeva proprio il mestiere di tagliatrice” ci racconta. “Le famiglie della
nostra etnia, i Peul, ci portavano le neonate, pagandoci 2mila franchi Cefa
(circa 3 euro, ndr) per ogni intervento. Da
noi si usa rimuovere il clitoride a bambine di uno o due mesi, un’età precoce
in cui la ferita si cicatrizza meglio e si pensa che le piccole non soffrano.
Si crede che, in questo modo, saranno pure e pronte per un buon matrimonio.
Anch’io ho subìto l’escissione: era una cosa normale, a quei tempi. Ma quando
nel 1999 il Senegal ha varato una legge che criminalizza le mutilazioni
genitali femminili, io e altre tagliatrici siamo state convocate da una
commissione di politici, religiosi e Ong, che ci hanno spiegato che saremmo
state arrestate, se avessimo continuato. Così ho smesso, chiedendo perdono ad
Allah per tutto il male che avevo arrecato nella mia vita, anche se fino ad
allora non me n’ero resa conto: era un’usanza da secoli, non l’avevamo mai
messa in discussione. Ma pregare non mi bastava: ho voluto impegnarmi in prima
persona per contrastare le mutilazioni genitali, poiché a Bakel, anche dopo la
legge, alcuni continuano a praticarle clandestinamente, spesso provocando alle
bambine gravi emorragie”.
Oggi,
6 febbraio, Giornata internazionale per la tolleranza zero contro le
mutilazioni genitali femminili, l’Unicef ricorda che 200 milioni di donne al
mondo ne hanno subìto una forma: dalla rimozione dei genitali esterni fino all’infibulazione,
la variante più grave che comprende anche una cucitura, tipica del Corno d’Africa.
La pratica, diffusa tanto fra i musulmani quanto fra cristiani e animisti,
resiste in 30 Paesi di cui 27 nel continente africano: è considerata una sorta
di viatico di purezza e garanzia di monogamia per la donna, ma - oltre a essere
un’insensata violazione dell’integrità fisica - comporta conseguenze sanitarie
molto serie, talvolta mortali.
Quanto
era rispettata come tagliatrice, tanto oggi Mariame è considerata una voce
autorevole per i diritti femminili e per questo, lo scorso luglio, è stata
eletta in Parlamento a Dakar. Lavora anche come ostetrica nel centro sanitario
di Bakel, dissuadendo le neo-madri dal praticare l’escissione sulle neonate. “Le
convinco a rifiutare le superstizioni: non è vero che la mutilazione genitale
rende le donne virtuose, dona onore ai padri, e che la ragazza non circoncisa è
impura e non può preparare il cibo per la famiglia. Le madri devono sapere che,
al contrario, il taglio porta emorragie, dolori durante il ciclo, fino alla
negazione del piacere sessuale. Non è giusto che una donna non conosca mai
questa gioia con il proprio marito”.
Anche grazie ad
attiviste come Mariame Sakho, il Senegal vanta ottimi risultati nella lotta
contro le mutilazioni genitali femminili. Secondo l’Unicef e l’Organizzazione
mondiale della Sanità, la percentuale di donne che le hanno subìte è scesa al
25% a livello nazionale, ma restano enormi disparità territoriali: dall’1% nella
regione occidentale di Diourbel, al 92% nell’area di Kédougou a
sud-est, al confine con la Guinea, Paese ad altissima prevalenza di mutilazioni
genitali. L’etnia maggioritaria dei Wolof non le pratica, mentre tra i Peul, il
gruppo etnico di Mariame Sakho, si passa dal 2% di quelli residenti a Diourbel
al 95% di Kédougou.
L’agenzia dell’Onu Unfpa prefigura un decremento del 40% nella percentuale
nazionale per il 2020.
Già nel ’97 il
presidente Abdou Diouf condannò pubblicamente le mutilazioni genitali femminili,
e il 31 luglio di quell’anno, nel villaggio occidentale di Malicounda Bambara,
le donne annunciarono solennemente di volerle abbandonare. Da allora fino al
2011, si stima che oltre 5mila comunità del Senegal abbiano detto
basta all’escissione. Dal ’99, una legge la sanziona con pene fino a 5 anni di
carcere.
Gli sforzi del governo
sono continui, insieme alla agenzie dell’Onu Unicef e Unfpa, eppure in certe aree la
tradizione è dura da sradicare. È emblematico un episodio del 2009, quando una
tagliatrice è stata processata per aver operato una clitoridectomia su una
bimba di 16 mesi. Alcune comunità e 200 predicatori
islamici protestarono, difendendo la donna e la necessità sociale del taglio.
Secondo Mariame Sakho, nonostante i progressi del
Senegal, “tanti
padri, soprattutto, restano convinti che la mutilazione genitale sia necessaria
per l’onore delle figlie. Il nostro lavoro di sensibilizzazione è ancora lungo”.
Oggi, nella Giornata
internazionale dedicata a questa piaga, il Parlamento Europeo discuterà una
risoluzione per chiedere alla Commissione e agli Stati membri delle misure di
prevenzione in settori come sanità, assistenza sociale,
istruzione e giustizia. In Europa si stima infatti la presenza di 550mila donne
originarie di Paesi a tradizione escissoria che sono portatrici di questa
ferita, con le percentuali maggiori in Regno Unito, Francia e Svezia. In
Italia, secondo una ricerca dell’Università di Milano-Bicocca e di ActionAid,
le donne sottoposte a mutilazione genitale sarebbero tra 61mila e 80mila, in
gran parte nigeriane ed egiziane.
Da Avvenire, 6 febbraio 2018
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